venerdì 31 ottobre 2008

Sir Orfeo (traduzione non definitiva)

Spesso leggiamo e troviamo negli scritti
E anche i studiosi ci fan conoscere
I lai che sono nei canti
Composti su cose meravigliose.
Alcuni sulla guerra altri sul dolore,
Alcuni sulla gioia altri sulla letizia
Alcuni sul tradimento altri sull'inganno
D'antiche avventure che un dì furono
Alcuni di beffe altri di ribalderie
E molti su cose accadute in Feeria.
Di tutto ciò che uomo può vedere,
Ma soprattutto d'amore, invero, essi trattarono.
Tutti questi lai in Britannia furon scritti,
Prima trovati, e poi proposti,
D'antiche avventure in giorni passati,
Su questo i Britanni fecero questi lai,
Che i re possono udire ovunque,
Di tutte le meraviglie che furono.
presero l’arpa con gioia e gioco,
Per far questi lai e donar ad essi un nome.
Delle avventure antiche,
Qualcosa, non tutto, posso narrarvi.
Ascoltate, signori che siete giusti,
Ed io di Orfeo vi narrerò.





Orfeo era un re
Gran signore in Inghilterra,
Fidato e coraggioso,
Cortese e prodigo nei suoi doni.
Suo padre veniva dalla stirpe di Re Pluto,
e sua madre da Re Juno,
creduti un tempo dei
per le avventure che fecero e narrarono.
[Orfeo più d'ogni cosa
Amava la gioia dell'arpa.
Certo era ogni buon arpista
D'aver da lui molto onore.
Egli stesso l'arpa suonava
Ed era tanto bravo e fine
Che sapeva che per nulla
Vi era ogniddove suonatore migliore.
Nel mondo mai nessun nacque
Che sedette davanti ad Orfeo -
E potesse udirlo suonare -
Se non pensando che
Si trovasse in una delle gioie del Paradiso
Tanto dolce era la sua musica.]
Questo re dimorava in Tracia,
Città di nobili fortificazioni,
Poi Tracia ebbe nome
Winchester, senza dubbio.
Il re aveva una nobile regina,
Il cui nome era Dama Euridice,
La più dolce delle dame invero,
Che incedeva con le sue membra
Piena d'amore e di bontà –
E nessun uomo poteva narrarne la bellezza.
Accadde al principio di maggio
Quando il dì è lieto e caldo,
E le piogge d'inverno passate,
Ed ogni prato è pieno di fiori,
E boccioli pendono da ogni ramo,
e in ogni dove cresce la gioia,
Che la sua regina, Dama Euridice,
Prese due delle sue nobili ancelle,
E andò nel tardo mattino,
Per aver diletto in un frutteto,
Per vedere i fiori sbocciare e crescere
E per sentire gli uccelli cantare.
Sedettero tutte e tre
sotto un dolce albero innestato,
E presto invero questa dolce regina
Cadde addormentata sul prato.
Le ancelle non vollero destarla,
Ma la lasciarono adagiata a prender riposo
Così che dormì fino al pomeriggio
E mezzodì era passato.
Ma non appena fu desta
Ella gridò, e fece gran lamento
Agitò mani e piedi,
E graffiò il suo volto - che sanguinò molto -
E fece a pezzi la sua ricca veste
E fu così fuor di senno.
Le due ancelle presso di lei
Non poterono più sopportarlo,
Ma subito corsero al palazzo
E narrarono a signori e cavalieri
Che la loro regina era divenuta folle,
Pregandoli di andare a prenderla.
Cavalieri e dame accorsero,
Più di sessanta damigelle
Andarono nel frutteto verso la regina,
La portarono via sulle braccia
E infine la condussero a letto,
E la tennero colà al sicuro;
Ma ella ancora gridò
E alzandosi voleva andar via.
Quando Orfeo seppe questi eventi
Per lui il dolore fu sommo.
Andò con dieci cavalieri
Al suo capezzale e stette davanti alla regina
La mirò e disse con gran pietà:
"O vita mia, cos'hai
Tu che sei sempre stata così quieta
Ora gridi in questo strano modo stridulo?
Le tue membra, un dì sì bianche,
Ora sono tutte graffiate dalle tue unghie.
Ahimè! Il tuo viso, un dì sì roseo,
Ora è tutto pallido, come se tu fossi morta;
Ed anche le tue dita sottili
Sono tutte sanguinanti e smorte.
Ahimè! I tuoi occhi amabili
Sembrano quelli di un uomo verso il suo nemico!
Ah, mia signora, io v'imploro, pietà!
Abbandonate queste tristi grida
E ditemi ciò che v'attrista, e come,
E cosa vi possa ora aiutare."
Quindi ella infine stette immobile
E cominciò a piangere veloce
E disse al re così:
"Ahimè, mio signore, sire Orfeo,
Sin dal primo istante in cui restammo insieme
Mai l'un verso l'altro fummo adirati
Ma sempre ti ho amato
Come la mia vita, così come tu a me,
Ma ora dobbiamo separarci.
fa del tuo meglio, ché io debbo andare".
"Ahimè!" egli rispose, "sono perduto!
Dove vai, e da chi?"
Ovunque andrai verrò con te
Ovunque andrò verrai con me."
"No, no, sire, ciò non può essere!
Ti dirò cosa accade.
Mentre a mezzodì giacevo
E dormivo nel nostro frutteto,
Vennero a me due bei cavalieri,
Armati come si conviene,
E mi ordinarono di seguirli veloce
Per parlare con il sire loro re.
Ed io risposi con parole risolute
Che non intendevo né mi accingevo a farlo.
Allora spronarono il cavallo il più lesto possibile
E altrettanto lesto il loro sire arrivò,
Con cento cavalieri e più,
E pure cento dame
Tutti su candidi destrieri;
Bianchi come latte erano le loro vesti.
Mai avevo prima veduto
Creature così belle e gentili.
Il re aveva una corona sul capo,
Non d'argento né d'oro rosso
Ma forgiata in preziosa gemma
E brillava luminosa come il sole.
E non appena si appressò a me
Mi prese, lo volessi o no,
E mi fece cavalcar con lui
Al suo fianco, su un palafreno,
E mi portò al suo palazzo
Ben ornato in ogni guisa,
E mi mostrò castelli e torri,
Fiume, foresta, boschi in fiore,
E i suoi bei corsieri
E infine mi portò di nuovo a casa
Nel nostro frutteto,
E poi mi disse così:
"Guarda, o dama, di essere
Domani qui sotto quest'albero innestato..
Quindi verrai con noi
E vivrai con noi per sempre.
Se tu a noi porrai qualche impedimento
Ovunque sarai, verrai presa,
E le tue membra così fatte a pezzi
Che nulla ti sarà d’aiuto;
E anche se fatta a pezzi
Comunque sarai portata con noi."
Quando Re Orfeo udì la cosa,
"Che sventura!" disse "ahimè! Ahimè!
Preferirei piuttosto perdere la vita
Che perdere la Regina, mia sposa!"
Chiese consiglio ad ogni persona,
Ma nessuno poté aiutarlo.
Il giorno seguente venne mezzodì
E Orfeo indossato avea le armi
Portando con sé dieci cavalieri
Ben armati, vigorosi e severi,
Assieme alla regina se ne andò
All'albero innestato.
Fecero la guardia su entrambi i lati
E giurarono che avrebbero tutti patito
E sarebbero morti colà
Piuttosto che lasciar andare via la regina.
Ma d'improvviso fra loro
La regina fu strappata via
Presa con un incanto;
Gli uomini mai seppero dov'ella andò.
Allora vi furono grida, pianto e lamenti!
Il Re tornò nelle sue stanze
E svenne sul selciato
E fece così gran pianto e lamento
Che la sua vita parve quasi spenta.
Non c'era alcun rimedio.
Chiamò tutti i suoi baroni,
Conti e signori di gran fama
E quando tutti furono giunti
"Signori," disse, "qui davanti a voi
Io ordino il mio alto reggente
Per governare d'ora in poi il mio regno
E in mia vece
Reggerà le mie terre.
Poiché ho perduto la mia regina
La più dolce dama mai nata,
Mai guarderò altra donna.
Me ne andrò nelle terre selvagge
E vivrò sempre colà
Con le bestie selvatiche nelle grigie selve.
E quando saprete che sarò morto,
Riunitevi in assemblea
E sceglietevi un nuovo re.
Ora fate del vostro meglio con i miei beni.
Allora vi fu pianto nella sala
E grandi grida fra loro.
Difficilmente poteva giovane o vecchio
Proferir parola per il pianto.
Quindi tutti caddero in ginocchio
E lo pregarono, se quella era sua volontà,
Di non andare via da loro.
"Basta!" rispose, "avverrà così".
Tutto il suo regno abbandonò,
Solo un mantello da pellegrino recò con sé,
Non ebbe né tunica né cappuccio,
Né camicia, né altro bene,
Solo la sua arpa prese comunque
E uscì a piedi dal cancello,
Nessuno poté accompagnarlo.
Che pena! Che pianto e che lamento vi fu
Quando colui che aveva portato corona di re
Uscì in tal povertà dalla sua città!
Nella selva e attraverso la landa
Andò nelle terre selvagge.
Nessun conforto trovò per sé,
Ma sempre visse in grand'afflizione.
Egli che aveva pellicce variegate e grigie
E sul letto bissi purpurei,
Ora nella dura landa dormì,
Con foglie ed erba si coprì,
Lui che aveva un dì castelli e torri,
Fiume, foresta, boschi e fiori,
Or che iniziava a nevicare e gelare,
Questo re dovette fare del muschio il suo giaciglio.
Lui che aveva cavalieri di pregio
Genuflessi davanti a lui, e dame,
Ora non vedeva altro che lo compiacesse
Se non serpi selvatiche striscianti accanto a lui.
Lui che possedeva l'abbondanza
Di carne e bevande, di ogni squisitezza,
Ora tutto il dì scavava e raspava
Fino a trovare il suo cibo fatto di radici.
D'estate viveva di frutta selvatica,
E bacche di poca sostanza,
D'inverno poteva pure non trovar nulla
Tranne radici, erba e cortecce.
Tutto il suo corpo era smagrito
Per le privazioni, e tutto screpolato.
Signore! Chi può dire il dolore
Che il re soffrì per dieci anni e più?
I peli della barba, neri ed ispidi,
Fino alla cinta erano cresciuti.
La sua arpa, nella quale era tutta la sua gioia,
Nascose in un albero cavo,
E quando il tempo era chiaro e luminoso,
Prendeva la sua arpa volentieri
E suonava seguendo il suo desiderio.
In tutto il bosco il suono risuonava
Sì che tutte le bestie selvatiche
Si radunavano attorno a lui per goderne,
E tutti gli uccelli che c'erano
Venivano e sedevano sulle radici d'erica
Per ascoltare la sua arpa
Tanto vi era in essa melodia,
Ma quando il suo arpeggiare finiva
Nessuna bestia voleva restargli accanto.
Poteva spesso vedere vicino
Nel caldo meriggio,
Il re di Feeria col suo seguito
Andare a caccia tutt'intorno
Con profondi richiami e squilli di corni,
E segugi che abbaiavano,
Ma non catturavano alcuna bestia,
Ne egli mai seppe dove andassero.
Altre volte poteva vederlo
Con una grande armata accanto,
Ben equipaggiata, dieci centinaia di guerrieri,
Ognuno armato completamente,
Di aspetto fiero e coraggioso,
Con molti vessilli spiegati,
E ognuno con la spada sguainata,
Ma mai seppe dove andassero.
Altre volte ancora vide altre cose,
Cavalieri e dame che venivano danzando
In vesti eleganti, con maestria,
Con passi aggraziati e leggeri:
Tamburi e trombe andavano con loro
Ed ogni sorta di menestrelli.
E un giorno vide accanto a lui
Sessanta dame a cavallo,
Gentili e vivaci come uccellini sui rami:
Nessun uomo era con loro.
E ognuna teneva un falcone sul braccio,
E cavalcavano cacciando lungo un fiume.
Per gioco fecero gran bella caccia:
Germani, aironi e cormorani.
Gli uccelli si alzavano sull'acqua
E i falconi li seguivano bene.
Ciascun falcone uccideva la sua preda.
Questo vide Orfeo e rise:
"In fede mia" disse, "questo è proprio un bel gioco!
Andrò li, in nome di Dio,
E’ uno svago bello a vedersi!"
Si alzò, e si mosse
E cominciò ad avvicinarsi alle dame,
Guardò, e dopo aver ben osservato,
Vide che fra le altre cose
C'era la sua regina, Dama Euridice.
Ardentemente la guardò, ed ella lui,
Ma nessuno parlò all'altro.
Ella lo guardò con tristezza,
Lui che era un dì così ricco e nobile
E le lacrime uscirono dai suoi occhi.
Le altre dame videro ciò
E la fecero cavalcare via:
Non doveva più sopportare la vista di lui.
"Ahimè" disse lui, "ora sono sventurato!"
Perché mai non mi prende ora la morte?
Ahimè, sventurato, ché non posso
Morire dopo questa vista!
Ahimè! Troppo è durata la mia vita,
Ché non posso con la mia sposa
Né ella con me scambiar parola!
Ahimè! Perché non mi si spezza il cuore?
In fede!" disse, "sia quel che deve essere,
Ovunque cavalcheranno queste dame
La stessa via io percorrerò,
Non mi curo né di vivere né di morire!"
Gettò via subito la sua cappa da pellegrino
E si mise la cetra in spalla
Ed ebbe gran desio di andare:
Egli non evitò né radice né pietra.
Le dame cavalcarono dentro una rupe
Ed egli dietro di loro, e senza indugio.
Quando fu dentro la rupe
Ben tre miglia e più,
Venne ad una contrada meravigliosa
Luminosa come il sole in un giorno d'estate,
Dolce e pianeggiante e tutta verde,
Senza accenni di alture o burroni.
In quella terra egli vide un castello,
Ricco e regale e meravigliosamente alto.
Tutto il muro esterno
Era chiaro e splendente come cristallo;
Tutt'intorno vi erano centinaia di torri,
Meravigliose e con poderosi bastioni;
I contrafforti fuoriuscivano dal fossato
In arcate decorate d'oro rosso;
La sala era tutta adorna
di smalti di diversi tipi.
E dentro vi erano varie dimore
Tutte in pietre di pregio.
Anche il più modesto pilastro che guardò
Era tutto d'oro brunito.
In quella terra vi era sempre luce,
Poiché quando era notte e buio
La luce delle pietre preziose splendeva
Come fa il sole a mezzogiorno.
Nessun uomo può dire, né immaginare,
Le splendide opere che vi erano forgiate,
Perciò egli si trovò a pensare
Che quella fosse la superba corte del Paradiso.
In tal castello le dame scesero da cavallo;
desideroso di seguirle, se poteva,
Orfeo bussò al portone,
Dove pronto era il custode,
che chiese che cosa volesse.
"In fe’ mia!" rispose, "io sono un menestrello!
La mia arte per il diletto del tuo Signore,
Se questo è la sua gentile volontà".
Il custode aprì il portone
E lo fece entrare nel castello.
Colà egli stette a guardarsi attorno,
Così vide accanto al muro
Una folla lì radunata,
Che pareva morta, ma non lo era.
Alcuni erano senza testa,
Altri senza braccia o piedi,
Altri avevano il corpo ferito,
Altri erano folli, e saltavano,
Altri sedevano a cavallo in armatura,
Altri erano stati strangolati nel mangiare,
Altri erano affogati nell’acqua,
Altri disseccati dal fuoco.
Colà erano mogli nelle culle,
Alcune morte, altre folli,
E molte un incanto le teneva colà
Come se dormissero nel meriggio.
Ognuno stava così in quel luogo,
Trascinato da un incantesimo di Feeria.
Colà egli vide la sua sposa,
Dama Euridice, la sua vita beneamata,
Che dormiva sotto un albero innestato,
E la riconobbe dalle vesti.
E quando ebbe contemplato tutte queste meraviglie,
Andò nella sala del Re.
E vide una cosa meravigliosa,
un baldacchino splendido e brillante,
Dove erano assisi il re
E la sua regina, bella e dolce.
Le loro corone, le loro vesti erano così luminose
Che a stento riusciva a mirarle.
Quando ebbe tutto contemplato
Si inginocchiò davanti al re.
"O Signore," disse, "se è tuo desiderio,
Ascolterai i miei canti."
Il re rispose: "Chi mai sei tu,
Che ora sei giunto qui?
Né da me, né da alcun messo
Sei qui stato chiamato;
Da quando io sono re,
Nessuno mai ho trovato così imprudente
Da osare venire qui a noi
Senza che io stesso l'abbia convocato."
"Signore," rispose, "vi credo,
Non sono che un povero menestrello;
E, signore, è nostro costume
Cercare la dimora di molti signori,
Anche se non siamo invitati,
E offrire la nostra musica."
Egli allora sedette davanti al re
E trasse dalla sua arpa un suono così lieto,
E da essa tali accordi, i migliori che poté,
E diede inizio a note così estasianti,
Che tutti coloro che erano nel palazzo
Si recarono presso di lui,
E sedettero ai suoi piedi,
Pensando che la sua musica era dolcissima.
Il re ascoltò e stette immoto
Desiderando udire la sua musica.
Gran piacere ebbe ai suoi canti
E così la sua nobile regina.
Quando egli portò a compimento i sui arpeggi,
Disse a lui il re:
"Menestrello, gradii molto il tuo canto.
Ora chiedimi quel che vuoi,
Generosamente ti ricompenserò.
Ora parla, ed otterrai."
"Signore," disse, "ti prego
Che tu mi doni
La medesima dama, d'incarnato luminoso,
Che dorme sotto l'albero innestato."
"No!" rispose il re, "giammai avverrà!
Sarebbe una mal assortita coppia,
Poiché tu sei magro, rozzo e scuro,
Ed ella è amabile, senza macchia,
Una cosa detestabile sarebbe, invero,
Di vederla in tua compagnia."
"Oh sire!" rispose, "re gentile,
Ben più detestabile sarebbe
Udire una menzogna sulle tue labbra!
Poiché, sire, or ora dicesti
Che quel che desideravo avrei ottenuto,
Allora devi mantenere la tua parola."
Il re disse: "Poiché questo è vero,
Prendila per mano, e va',
E spero che sarai con lei felice."
Egli si inginocchiò e in fretta ringraziò
Prese la sua sposa per mano
E si allontanò lestamente da quella terra,
E abbandonò quella gente.
Così com'era venuto, egli se ne andò.
Viaggiò lungamente
Finché a Winchester arrivò,
A quella che era la sua città,
Ma in cui nessuno sapeva chi fosse.
Non andò più in là del limite della città
Poiché non voleva essere riconosciuto,
Ma con un mendicante, la cui casa era invero piccina,
Egli prese dimora
Per sé e la sua sposa,
Come un menestrello dalla vita grama,
E chiese notizie su quella terra,
E su chi avesse il regno nelle mani.
Il povero mendicante nella sua casupola
Gli narrò ogni cosa,
Come la regina fu rapita
Dieci anni prima, con un incanto,
E come il re se ne andò in esilio,
Nessuno sa dove,
E come il sovrintendente amministrò la terra,
Ed altro ancora gli narrò.
Il dì seguente verso mezzogiorno,
Lasciando colà la sua sposa,
Vestì i panni del mendicante,
Prese la sua arpa
Ed andò in città
E molti lo videro.
Signori e coraggiosi baroni
Cittadini e dame accorsero a vederlo.
"Guarda!" dicevano. "Che uomo!
Come lunghi ha i capelli!
Guardate la barba che gli tocca il ginocchio!
É nodoso come un albero!"
E, mentre andava per la strada,
Il suo sovrintendente incontrò
E forte lo chiamò:
"Sire sovrintendente!"disse. "Vi scongiuro!
Sono un povero arpista di lontano
Aiutatemi nella mia afflizione!"
Rispose il sovrintendente: "Vieni meco, vieni
Dai miei beni tu puoi prendere qualcosa.
Ogni bravo arpista è benvenuto presso di me
Per amore del mio Signore, Ser Orfeo."
Nel castello il sovrintendente si sedette al tavolo -vt
E molti signori erano con lui;
Vi erano trombettieri e cembalisti,
Vari arpisti e violinisti .
Insieme creavano una dolce melodia
e Orfeo sedette immoto nella sala
E ascoltò. Quando tutti s'acquietarono
Prese la sua arpa e l'accordò
Poi suonò le più dolci melodie
mai udite da uomo vivente.
Ognuno fu preso dalla sua musica,
Il sovrintendente lo scrutò e vide
E insieme riconobbe quell'arpa
"Menestrello", disse, "se desideri prosperare,
Dove prendesti quell'arpa, e come?
Ti prego, dimmelo!"
"Signore", rispose, "in terre ignote
Allorquando andavo per lande selvagge,
Colà trovai in una forra
Un uomo fatto a pezzi dai leoni,
Divorato dalle aguzze zanne dei lupi.
Accanto a lui trovai quest'arpa,
Sono ormai dieci anni."
"Oh!" disse il sovrintendente, "povero me!
Egli era il mio Signore, Ser Orfeo!
Ahimè, che disgrazia, che mai farò
Ora che ho perso il mio Signore?
Ah! Che io non fossi mai nato!
Ché a lui fu destinato così amara sorte
Ed il fato di una morte così orrenda!"
Quindi cadde a terra in deliquio
E i baroni subito lo sollevarono
E gli dissero che in questo mondo
"non v'è rimedio alla morte".
Sire Orfeo quindi ben conobbe
La lealtà del sovrintendente
E che lo amava come si conviene,
E così s'alzò, e disse: "Ecco,
Sovrintendente, guarda!
Se io fossi sire Orfeo
E avessi lungamente sofferto
Disperandomi nelle terre selvagge,
E avessi riconquistato la mia regina,
Portandola via dalla terra delle fate,
E avessi portato la mia dolce dama
Fin qui ai margini della città
E l'avessi lasciata assieme ad un mendicante,
E fossi giunto qui
A te, in miseria, ora immoto,
Per saggiare la tua buona volontà
E l'avessi trovata onesta
Non dovresti dispiacerti:
Certamente, per amore o fedeltà,
Tu saresti re dopo di me
E se tu ti fossi rallegrato della mia morte
Saresti stato bandito, immediatamente."
Quindi tutti coloro che colà sedevano
Riconobbero che era sire Orfeo
E lo riconobbe anche il sovrintendente
E si gettò oltre la tavola
E cadde ai suoi piedi.
Così fece ogni signore
E tutti dissero a gran voce
"Sii il nostro signore, sire e re!"
Lieti furono che fosse in vita,
Subito lo portarono nella sua camera
E lo nettarono e rasarono
E lo vestirono come conviene al re.
Poi in gran processione
Portarono la regina nella città
Con ogni guisa di canti.
- Signore! Che musica meravigliosa fu!-
Di gioia piansero i loro occhi
Ché li videro sani e salvi,
Ora sire Orfeo è di nuovo incoronato
E così la sua regina, dama Euridice,
E vissero poi a lungo
E dopo di loro fu re il sovrintendente.
I musici in Britannia poi
Udirono di queste meraviglie
E ne fecero un lai di gran bellezza
E lo chiamarono dal nome del re.
Il lai “di Orfeo” si chiama.
Bello è il lai, dolce la musica.
Così sire Orfeo uscì dal suo dolore.
Dio ci garantisca sempre prosperità!

martedì 26 agosto 2008


ELEN SILA LUMENN'OMENTIELMO

(Una stella brilla sull'ora del nostro incontro)
Cos'è una stella? Materia incandescente
Dai numeri costretta ad orbitare
Tra il vuoto e i freddi reggimenti
Ove muoion gli atomi ad ogni istante. 1

La poesia da cui sono tratti questi versi, Mitopoeia – La creazione mitica, venne composta da Tolkien sulla scia del ricordo di una discussione, con il suo amico Clive Staples Lewis, sulla natura e lo scopo del mito in un'epoca come la nostra, in cui le verità scientifiche molto hanno tolto del senso di mistero insito in ogni aspetto del creato.Lewis chiedeva proprio che senso potessero avere il mito e, ancor più significativamente, la religione nel mondo contemporaneo e Tolkien pronunciò un discorso tale da portare il suo amico a rivedere le proprie concezioni fino al punto di convertirsi al cristianesimo. Tolkien affermò che, se è vera l'importanza della ricerca scientifica, è però altrettanto urgente riappropriarsi dello sguardo meravigliato di fronte alla natura, nella ricerca non solo del come ma anche del perché delle cose, della scintilla divina, in altre parole, che queste portano nascoste nel loro intimo. Lo sguardo scientifico avulso dalla meraviglia è, per Tolkien, rischioso perché causa di progresso esclusivamente materialista, la cui conseguenza è la caduta nell'abisso spalancato sulla Corona di Ferro del potere del male. Una stella perciò è per lui non solo un globo di materia incandescente ma è anche portatrice della bellezza, della scintilla d'amore che il Creatore ha posto nascondendola nel Creato. Allora “la Natura è senza dubbio uno studio per tutta la vita, o per l'eternità (per quanti sono dotati a sufficienza), ma c'è una parte dell'uomo che non è «natura» e che quindi non è obbligata a studiarla e, di fatto, è del tutto insoddisfatta da essa.”2Il mito opera quindi su questo aspetto peculiare dello spirito umano, andando oltre la spiegazione scientifica3 e la pura materia e “il narratore, che si concede di <> nei confronti della Natura, può esserne l'amante, non lo schiavo”4, riscoprendone la meraviglia, trovando che un modernissimo manufatto scientifico nella sua temporaneità è sicuramente “meno ispiratore della leggendaria volta del cielo”.5Tolkien era sicuramente impressionato dall'astronomia6 ma in arte è interessato molto di più alla contemplazione della loro bellezza e alla domanda sul perché della loro esistenza che non alle spiegazioni scientifiche sulla materia di cui sono composte e sulle leggi fisiche che ne governano vita e movimenti.
Le stelle non scorge chi prima non le vededi vivo argento d'improvviso esplose come fior di fiamma sotto canto antico, il cui sol eco ogni spartito da allora insegue. Non vede il firmamento chi non scorge la tenda ingioiellata,di mito intessuta, dagli elfi cantata, la terra non scorge chi non vede un grembo.7
L'amore per la natura, cioè, non può essere scientismo materialista, ma richiede lo sguardo stupito di chi ammira le bellezze del creato. Tolkien uomo resta sempre affascinato dalla bellezza della natura e, proprio per la sua libertà dal naturalismo verista in arte, il suo amore prende la via dell'interpretazione mitica della cosmologia. In questo senso Tolkien può essere definito astrofilo, perché innamorato della bellezza degli astri, individuando in essi anche la mano di Colui che li ha creati. Non vi è nessuna venerazione delle stelle, perché le sente creature. Non appare mai l'astrologia, perché realista di fronte alla libertà umana e fiducioso nell'opera provvidenziale del Creatore di tutto. Gli astri non dominano mai il destino, ma sono piuttosto indizi e segni radiosi del misterioso agire di Dio, dell'amore di Questi che ha creato una meraviglia enorme perché l'uomo le contemplasse (cfr. tutta la poesia Mitopoeia).
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Nella cosmogonia mitologica tolkieniana il Creatore intona una melodia e invita le sue creature angeliche, i Valar, a prendere parte alla realizzazione della musica, cioè alla forgiatura dell'universo. Tolkien quindi identifica anche nella sub-creazione letteraria, che stacca dalla parafrasi biblica mantenendovi però una robusta fedeltà all'essenza del cristianesimo, un'Origo divina al creato, percependo fino in fondo la limitatezza di ogni ricerca scientifica separata dalla necessità propriamente umana di indagare il senso ultimo di tutte le cose. Nella mitologia della Terra di Mezzo il Creatore assume il nome di Eru o Iluvatar ed è il principio di tutto, l'Unico che crea, i Valar come tutto l'universo. Ma i Valar sono da Lui invitati a partecipare alle fasi successive della creazione. Fra di essi sommamente importante è Varda assieme al suo sposo, Manwe. Varda è detta l'Accenditrice (Tintalle), la Regina delle Stelle (Elbereth, Elentari). In ere dimenticate, quando Arda, la terra, era ancora incompiuta, Varda aveva posto nel cielo le prime stelle ad illuminarla di un perenne crepuscolo, poiché sole e luna ancora non esistevano, mentre le terre dei Valar, appartate dalla Terra di Mezzo da mari separanti, conoscevano l'alternarsi del giorno e della notte nella luce dei due alberi Laurelin e Telperion. Essi vennero formati dagli stessi Valar, con il fulgore delle due differenti lampade d'argento e d'oro, il cui riverbero venne in odio a Melkor, che le distrusse. Così fece poi anche con i due alberi, con la complicità del ragno Ungoliant, divoratrice di luce e genitrice, oltre che della stirpe maligna di Shelob, di tenebre, perché le sue opere non divenissero visibili. Quando Varda creò le stelle, dunque, le pose in Ilmen, nel cielo. Ma nei Racconti Ritrovati Tolkien, che man mano ridusse di molto le spiegazioni fino alla epicità asciutta del Silmarillion, pubblicato postumo, ci fornisce una versione più ampia sulla sua cosmologia mitologica. Esiste, come continuerà poi ad esistere, il Grande Oceano, senza maree e freddo, Vai, che, come le acque circondanti della Genesi, avvolge tutto. All'interno di Vai sono le tre Arie, Vaitya, scura e lenta, che circonda il mondo, Ilwe, l'intermedia, dove brillano le stelle, e Vilna, la più prossima alla terra, dominio di nubi e venti. Sembra che il sole e la luna, come poi verranno immaginati da Tolkien, corrano in quest'ultimo strato.I Valar non conoscono né tempi né modi del risveglio dei Figli Primogeniti di Iluvatar, ma sanno che nell'oscurità della Terra di Mezzo agisce la malizia di Melkor e ne sono preoccupati. Temono che al loro risveglio sotto la tenue luce del firmamento siano da Melkor ingannati, non riferendosi più all'intercessione di Varda nel momento del bisogno. Per questo intervengono, così che l'inno di fiducia degli Elfi possa tramandarsi anche a due piccoli Hobbit, Frodo e Sam, nel momento in cui l'oscurità sembra impenetrabile. Sam, allora, come Frodo altrove, in una lingua a lui ignota, nelle tenebre della terra del Ragno Shelob, grida, come un cristiano griderebbe per l'intercessione di un santo:
“A Elbereth Gilthonielo menel palan-dirielle nallon si di ‘nguruthos! A tiro nin, Fanuilos!”8
“O Elbereth accenditrice delle stelle / che dal cielo guardi lontano / io ti invoco ora dall'oscurità (della paura) della morte! / Guarda verso di me, o Semprebianca!”9Perché la tenebra non avesse il sopravvento, Varda stessa fabbricò stelle ancora più splendenti: “Carnil e Luinil, Nénar e Lumbar, Alcarinque ed Elemmire essa fabbricò in quel tempo, e molte altre delle antiche stelle radunò assieme e le collocò a guisa di segni nei cieli di Arda: Wilwarin, Telumendil, Soronume e Anarrima; e Menelmacar con la sua cintura scintillante, che preannuncia l'Ultima Battaglia alla fine dei giorni. E alta al nord, come una sfida a Melkor, sospese la corona di sette possenti stelle che formano Valacirca, la falce dei Valar, e sono segno di destino. Si vuole che, proprio mentre Varda terminava le sue fatiche, ed esse furono lunghe, quando per la prima volta Menelmacar salì nel cielo e il fuoco azzurro di Helluin baluginò nelle brume sopra i confini del mondo, in quell'ora appunto si destarono i Figli della Terra, i Primogeniti di Iluvatar. Presso il lago di Cuivienen, illuminato appena dalle stelle, il cui nome significa Acqua del Risveglio, si riscossero dal sonno di Iluvatar; e mentre se ne stavano ancora silenziosi sulla riva, i loro occhi scorsero per prima cosa le stelle del cielo. Perciò essi hanno sempre amato il lume delle stelle, onorando Varda Elentari più di tutti i Valar.” 10Secondo la lingua che Tolkien inventò come antenata di altre lingue elfiche e umane, ” Ele !”, guarda!, fu la prima parola che gli Elfi pronunciarono, quando al loro risveglio nella Terra di Mezzo, presso le acque di Cuivienen, contemplarono lo spettacolo stupendo del firmamento. Ed el , elen , stella, è la radice del nome stesso degli Elfi, chiamati Eldar nella loro lingua da Orome, un altro Vala, cioè “coloro che sono delle stelle”. Il loro saluto, che Frodo conosce e divide con l'elfo Gildor, è “ elen sila lumenn'omentielvo ”, una stella brilla sull'ora del nostro incontro. Nella mitologia tolkieniana, quindi, le stelle sono segno del Cielo nel cielo.Menelmacar, è segno che ci sarà una fine per i giorni della Terra, un Combattimento Ultimo che marcherà la sconfitta definitiva del male. Così è anche per Valacirca. Wilwarin, in elfico farfalla, ha la forma di una M, e ciò, unito al fatto che questo splendido insetto nella simbologia medievale, pane quotidiano nel lavoro del Tolkien filologo, era segno dell'anima salvata, ricorda anche la figura di Maria madre della Chiesa. Negli studi linguistici preparatori di Tolkien è possibile rintracciare la corrispondenza dei nomi elfici con astri e costellazioni reali. Come appare facilmente, Menelmacar è Orione, Valacirca l'Orsa Maggiore e Wilwarin Cassiopea.Più difficile è l'interpretazione di Soronume, che da thoron potrebbe significare Aquila. Anche questo animale, nella simbologia tradizionale, era segno dello spirito che salva al di sopra delle vette e nelle opere stesse di Tolkien compaiono come compagne di Manwe e come soccorritrici insperate nel momento della disfatta inevitabile di fronte a nemici più forti, come nello Hobbit e nel Signore degli Anelli.Ancora difficile è la corrispondenza per Telumendil, che, sempre secondo l'elfico, potrebbe significare “centro della volta”, e quindi l'Orsa Minore, cui appartiene l'attuale centro ottico della rotazione della volta celeste, vale a dire la Polare. Sicure sono invece le corrispondenze di Carnil (rosso) con Marte, Elemmire (astro-gioiello) con Mercurio, Lumbar (il nebuloso) con Saturno e Alcarinque (lo splendente) con Giove. Luinil (l'azzurro) o altrove Luinar, secondo quello che suggerisce il figlio di Tolkien, Christopher, sarebbe probabilmente da identificarsi con Helluin, altrove Nielluin, cioè chiaramente Sirio. Quest'astro è, infatti, collegato da Tolkien alla vicina costellazione di Menelmacar-Orione. Helluin è memoria di Ingil. Figlio del Vala Inwe, che, sotto forma di una grande ape recante miele di fiamma, seguì Telimektar (altro nome per Menelmacar, detto anche Menelvagor) figlio del Vala Tulkas, quando i Valar muovevano guerra a Melkor11. In effetti Sirio appare subito al di sotto dei piedi di Orione. Nel Signore degli Anelli compare anche Borgil, la rossa Betelgeuse: “Alta a oriente si ergeva Remmirath, la Rete di Stelle, e dalla nebbia, solenne, maestosa, si innalzò la rossa Borgil, incandescente come un gioiello di fuoco. Improvvisamente un leggero colpo di vento spazzò via la nebbia come fosse un velo, e Menelvagor, lo Spadaccino del Cielo, apparve in tutto lo splendore della sua cinta scintillante, mentre sorgeva all'orizzonte della terra.”12 Era notte inoltrata, un giorno della fine di settembre. Remmirath, le Pleiadi, sono già alte sull'Est quando sorge Betelgeuse, portando con sé Orione, costellazione che inizia a farsi vedere a notte fonda durante l'autunno.Un'altra stella importante nella prima cosmologia tolkieniana dei Racconti Ritrovati è Morwinyon, cioè Arturo, che viene stranamente sempre concepita misticamente immobile ad Ovest. La traduzione dall'elfico del nome è Luccichio nell'oscurità e Tolkien sembra perciò ancora una volta rappresentare nell'astro la speranza che è la luce che attraversa le tenebre, lo Spirito che penetra e illumina l'oscurità del male, come un faro è la sicurezza per i naviganti nella notte.In seguito, nel Silmarillion, l'astro che indicherà la speranza verrà identificato con Earendil, fra i primi personaggi della creazione mitologica tolkieniana. Per uno di quei casi particolari per cui Tolkien ha tratto ispirazione dall'eufonia di una parola, Earendel, nome anglosassone, divenne figura centrale in molti racconti. In una lettera risalente circa all'Agosto 1967, Tolkien stesso descrive i legami che corrono fra Earendel e la sua rivisitazione elfica in Earendil13.Earendel, infatti, era una stella legata verosimilmente ai miti germanici del cielo. All'epoca della penetrazione anglosassone in Inghilterra il nome venne associato a Venere, astro che preannuncia l'alba. Così nelle Blickling Homilies14 se nìwa éorendel (il nuovo earendel) è riferito a San Giovanni Battista, mentre in Christ15 si canta éala! éarendel engla beorhtast ofer middangeard monnum sended , cioè “salve, Earendel, il più luminoso degli angeli inviato sopra la terra16 per gli uomini”. Un astro che è angelo, dal greco messaggero, quindi, latore di un messaggio di speranza per chi lo contempla. Tolkien continua: “Prima del 1914 scrissi una poesia su Earendel che fa salpare la sua nave come una lucente scintilla dai porti del sole. L'ho adottato nella mia mitologia – in cui è diventato personaggio principale come marinaio e come stella annunciatrice, e simbolo di speranza per gli uomini. Aiya Earendil Elenion Ancalima, «salute Earendil, la più brillante fra le stelle» deriva da éala Earendel engla beorhtast.”17Nella mitologia tolkieniana Earendil è un Mezzelfo, nato cioè dall'unione fra Elfi e Uomini18, che dopo varie vicissitudini trova l'ardire di veleggiare con Elwing sua moglie sulla nave Vingilot verso Aman, la terra dei Valar interdetta ai mortali e in quel tempo anche agli Elfi Esiliati, per impetrare aiuto contro la malvagità di Melkor, proprio nel momento in cui questi sembrava poter ottenere la vittoria definitiva nella Terra di Mezzo. Portando con sé uno dei tre Silmaril, i gioielli che, per la brama di possesso che suscitarono in Feanor, loro forgiatore, e nella stirpe di lui, avevano causato l'esilio degli Elfi, Earendil gettò l'ancora a Valinor, trovandola vuota. Dopo aver chiamato ripetutamente, senza ottenere risposta, Earendil si accinge a tornare sui suoi passi. Proprio in quel momento si sente chiamare: “Salute, Earendil, il più famoso di tutti i marinai, l'atteso che giunge inaspettatamente, il desiderato che arriva al di là di ogni speranza! Earendil, portatore di luce più antica del Sole e della Luna! Splendore dei Figli della Terra, stella nelle tenebre, gemma del tramonto, radianza nel mattino!”19I Valar invitano così Earendil perché presenti le sue richieste ed esaudiscono poi la sua preghiera. Ma, restando valido sia il decreto sulla sorte dei Mezzelfi (cioè scegliere se restare con gli Elfi, immortali, o con gli Uomini, diventando longevi ma mortali), sia il bando degli Elfi da Valinor, questa fu la sentenza di Manwe: “Il pericolo da lui affrontato per amore delle Due Stirpi non ricadrà su Earendil né su Elwing sua moglie, che a sua volta l'ha affrontato per amore di lui; ma essi non s'aggireranno più tra Elfi e Uomini delle Terre Esterne.”20Earendil ed Elwing scelsero di seguire la sorte degli Elfi, mentre i loro compagni restati sulle navi vennero mandati indietro. Ma i Valar “trattennero però Vingilot, che consacrarono e portarono, attraverso Valinor, al limite estremo del mondo, dove il vascello passò di là dalla Porta della Notte e fu portato su, negli oceani del cielo. Ora, quel vascello era bellamente e meravigliosamente costruito, ed era colmo di una fiamma guizzante, pura e lucente; ed Earendil il Marinaio sedeva al timone, scintillante della polvere di gemme elfiche, il Silmaril sulla fronte. Lungi viaggiava a bordo di quella nave, spingendosi perfino nelle vacuità prive di stelle; ma soprattutto lo si vedeva al mattino e alla sera, splendente all'aurora e al tramonto, quando tornava in Valinor da viaggi al di là dai confini del mondo.”21“Ora accadde che, quando per la prima volta Vingilot fu inviata a solcare i mari del cielo, si levò inaspettatamente, scintillante e lucente; e da lungi la scorsero le genti della Terra di Mezzo che la interpretarono come un segno, sicché la chiamarono Gil-Estel, Stella dell'Alta Speranza .”22Lo stesso Sam, ere più tardi, fu consolato dalla visione di Earendil, luminosa sopra le tenebre della terra di Mordor. “E lì Sam, sbirciando fra i lembi di nuvole che sovrastavano un'alta vetta, vide una stella bianca scintillare all'improvviso. Lo splendore gli penetrò nell'anima, e la speranza nacque di nuovo in lui. Come un limpido e freddo baleno passò nella sua mente il pensiero che l'Ombra non era in fin dei conti che una piccola cosa passeggera: al di là di essa vi era eterna luce e splendida bellezza.”23Dopo che Earendil partì nel cielo, i Valar scesero in guerra contro Morgoth e “lo scaraventarono, attraverso la Porta della Notte, nel Vuoto Atemporale; e scolte vigilano eternamente su quelle mura, ed Earendil non perde di vista i contrafforti del cielo. Pure le menzogne che Melkor, il possente e maledetto, Morgoth Bauglir, la Potenza di Terrore e di Odio, aveva seminato nei cuori di Elfi e Uomini, è una pianta che non muore né può essere svelta, e che anzi di continuo rispunta e darà tenebrosi frutti fino agli ultimissimi giorni.”24La presenza di Earendil nel cielo è quindi sempre un annuncio di speranza nelle alterne sorti delle vicende umane, nella lotta contro il male esterno e interno all'uomo stesso, seguitando il compito dell'antica Earendel-San Giovanni, luce che annunciava la venuta di Cristo, speranza dell'umanità, e il suo ritorno alla fine dei tempi, quando vi sarà la lotta finale. Nel Signore degli Anelli la storia di Earendil viene narrata in versi da Bilbo, nella Sala del Fuoco di Rivendell, luogo privilegiato per la conservazione della saggezza antica, il cui signore è Elrond (in elfico Volta Stellata), figlio dello stesso Grande Marinaio. Il gemello di Elrond, Elros (Schiuma di Stelle, anche se Tolkien gioca spesso con l'ambivalenza di El, “stella” ed “elfo”), fu capostipite dei Re di Numenor, sorta di Atlantide rivisitata, da cui Elendil (Amante delle Stelle) con i suoi figli Isildur (Amante della Luna) e Anarion (Figlio del Sole) e poi lo stesso Aragorn discesero. Da notare che nel vessillo di Aragorn e incise su Anduril compaiono le sette stelle di Valacirca, l'Orsa Maggiore. Un'antica credenza celtica associava l'Orsa Maggiore ad Artù, il cui nome gallese (Tolkien era affascinato da questa lingua!) deriverebbe daarth25, orso, e uthyr, luminoso. Per questo motivo in Galles, Cornovaglia e Inghilterra l'Orsa Maggiore era chiamata fino in tempi recenti Arthur's Wain, il Carro di Arturo. In Irlanda il Carro diventa di David, King's David Chariot, un antico Re dell'isola. Tradizione che si perpetua in qualche modo nella presenza del Grande Carro (o Orsa Maggiore) nei vessilli dei Re di Gondor. E fra i Re di Numenor, detta anche Elenna, Terra della Stella (poiché Earendil splendette come guida per l'attraversamento del Mare da parte degli Uomini che, per fedeltà ai Valar nelle lotte contro Morgoth, vennero premiati con questa splendida isola, prossima a Valinor) Tar Meneldur, cioè il “Re Astrofilo”, per amore dell'osservazione del cielo si costruì una torre lontano dalle città, nel Forostar, a nord dell'isola, per poter meglio seguire, nell'aria più limpida, i movimenti dei luminari nel firmamento.26 Da notare che Tolkien non accenna mai allo scrutare gli astri per ottenerne previsioni per il futuro, se non nelle allusioni che fa per Saruman, che è corrotto dalla sua stessa superbia.Arwen, figlia di Elrond e sposa di Aragorn, viene chiamata Undomiel, Stella del Vespro del suo popolo che, nel momento storico narrato nel Signore degli Anelli, ha come perso la speranza, poiché cosciente che la propria epoca è finita, essendo legata agli anelli elfici, il cui potere di conservazione delle cose belle nella Terra di Mezzo verrà a deperire quando l'Unico Anello, con cui dividono la sapienza da cui hanno origine, verrà ad essere distrutto. Arwen viene ad essere segno di speranza come Earendil, nel senso che la sua scelta libera e responsabile di seguire Aragorn è la luce che attraversa l'oscurità dell'incertezza e della morte. E' stella in quanto in lei brilla la luce dell'amore che spezza le catene della morte e dell'egoismo personale, e questa luce, nata dalla libera responsabilità, illumina anche gli altri, tanto che Frodo sarà salvato e curato all'Ovest proprio in virtù della scelta di Arwen.
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Ma la storia del Signore degli Anelli e parte di quella del Silmarillion si svolgono in un tempo non più di esclusivo e perenne crepuscolo, ma in una Terra di Mezzo illuminata dalla luce di Sole e Luna. In precedenza solo le terre dei Valar erano illuminate dal chiarore diurno della fioritura di Laurelin e notturno di quella di Telperion, i due alberi di Valinor. Da essi e dal primo alternarsi regolare delle loro fioriture avvenne il primo calcolo del tempo, l'Ora Iniziale. Ma l'odio di Melkor distrusse le due piante luminose e allora i Valar raccolsero in recipienti la radianza degli ultimi frutti dei due alberi morenti, cosicché Varda ne potesse creare dei “luminari del cielo tali da eclissare le antiche stelle, essendo più vicini ad Arda; e Varda conferì loro il potere di attraversare le regioni inferiori di Ilmen, e li impulse a correre lungo precisi itinerari, sopra la cintura della Terra, da Occidente a Oriente, per poi tornare”.27La luce viene aumentata perché possa quindi svelare ed ostacolare ancora di più la malvagità di Melkor, nell'oscurità crepuscolare della Terra di Mezzo, in cui già erano gli Elfi e nella quale stavano per venire al Mondo i Figli Secondogeniti e prediletti di Iluvatar, gli Uomini. Dall'opera di Varda ebbero allora inizio Isil, la Luna , e Anar, il Sole. Isil serba memoria degli Elfi, mentre il Sole è segno del sorgere degli Uomini. Isil fu creata28 per prima, risvegliando il Mondo e sbigottendo Morgoth. Il vascello che la conduceva nel cielo era guidato da Tilion, un Maiar, cioè una potenza angelica inferiore. Anar venne forgiato successivamente e la sua prima aurora gettò nel panico Morgoth, che si sprofondò negli antri più oscuri del suo regno.29 Il Sole venne trascinato dalla Maiar Arien, spirito luminoso di fiamma. L'alternarsi dei due nel cielo ebbe momenti di esperimenti e cambiamenti, poiché alla costanza di Arien si opponeva la volubilità di Tilion, che cercava sempre di raggiungerla. Nonostante l'ordine posto da Varda, Tilion restò sempre incostante, perennemente attratto da Arien, “sicché sovente accade che entrambi siano visti insieme sopra la Terra , e che a volte egli tanto le si accosti, che la sua ombra ne esclude la luce, e nel bel mezzo del giorno succeda la tenebra.”30 Avvengono così le eclissi di sole. Morgoth tenterà di insidiare i due vascelli, ma troppo forte è il calore di Arien perché possa sopportarla.
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Dappertutto, come si intuisce, traspare come la mitologia cosmologica di Tolkien nasca da una immaginazione potente in unione alla profonda eco dei miti antichi, sia mediterranei che del nord europeo. In più, e questo viene troppo spesso trascurato in virtù di interessi ideologici personali, vi si unisce la profonda significanza che gli astri assumevano nel linguaggio poetico cristiano medievale, soprattutto anglosassone, che amava il kenning e l'immagine visiva non come metafore (cioè traslati di realtà del momento) ma come simboli (cioè come segni indicatori di una realtà eterna). Allora per Tolkien diventa naturale parlare di stelle in un mito e non di lampioni in un romanzo realista, poiché le stelle sono una realtà perdurante nelle ere, e quindi indici di un qualcosa, o meglio di Qualcuno, che è eterno, mentre i lampioni (speriamo) saranno travolti dal passare del tempo, come verrà travolta la ricerca personale dell'Anello degli uomini di questo tempo, che ha ridotto la Natura ad uno strumento di potere, materialista ma anche ideologico. Allora ci sembra giusto cantare con Tolkien31:
Benedite, opere tutte del Signore, il Signore, lodatelo ed esaltatelo nei secoli. Benedite, angeli del Signore, il Signore, Benedite, cieli, il Signore, Benedite, acque tutte, che siete sopra i cieli, il Signore, Benedite, potenze tutte del Signore, il Signore, Benedite, sole e luna, il Signore, benedite, stelle del cielo, il Signore…32

Note1 Albero e Foglia, Mitopoeia.2 Albero e Foglia, Sulle fiabe, pag. 233. 3 per Tolkien non è vero del tutto che anticamente gli uomini spiegassero la natura con i miti ma piuttosto la interpretavano ricercandone il perché.4 Albero e Foglia, pag. 217.5 Albero e Foglia, pag. 220. 6 “Nella realtà immaginaria di questa storia [cioè del Signore degli Anelli] noi viviamo su una terra rotonda. Ma l'intero legendarium parla del passaggio da un mondo piatto (o quanto meno da oikoumene con confini tutt'intorno) a un globo: una transizione inevitabile, credo, per un moderno <> la cui mente è soggetta a sperimentare la stessa <> degli antichi, in parte alimentata dai loro miti, ma al quale è stato insegnato che fin dall'inizio la terra è rotonda. Così profonda è stata l'impressione che mi ha fatto l'astronomia che non penso avrei potuto scrivere o concepire un mondo piatto, benché una terra statica con un sole che le gira attorno sembri molto più facile (da immaginare se non da pensare con la ragione). ” La Realtà in Trasparenza, Bompiani 2001, lettera n. 154. Il mondo del Signore degli Anelli è un globo, poiché la primeva terra piatta è stata così trasformata per rendere le terre dei Valar inaccessibili ai mortali. Solo agli Eldar è concesso trovare la Strada Diritta che porta ad Aman. In queste pagine si tratta principalmente della cosmogonia – genesi del cosmo – cioè del mondo prima dello sradicamento di Aman e quindi della “globizzazione” della terra, storia narrata soprattutto nei primi capitoli del Silmarillion. 7 Albero e Foglia, Mitopoeia. 8 Il Signore degli Anelli, IV, X. 9 La realtà in trasparenza, Lettera 211. Riferiamo che nella traduzione presente nel testo delle Lettere, da noi corretto, vi è un errore, (Elbereth viene detta figlia non madre delle stelle) non sappiamo se verificatosi nella stampa inglese o piuttosto un lapsus nell'originale tolkieniano. Sicuramente è errore ascrivibile alla mancata conoscenza del Silmarillion da parte del traduttore italiano la trasformazione in un essere maschile della regina delle stelle.10 Silmarillion, cap. III. 11 Cfr. Silmarillion e Racconti Ritrovati. 12 Il Signore degli Anelli, I, III.13 Cfr. La Realtà in Trasparenza, lettera 297. 14 Si tratta di una raccolta di diciannove omelie anglosassoni precedenti l'anno Mille, così chiamate dalla località in cui venne conservato in origine il manoscritto, cioè Blicking Hall, Norfolk.15 Raccolta di poemi religiosi in anglosassone riferibili in gran parte a Cynewulf, antecedenti al Mille. Il riferimento ad Earendel poteva essere legato anche a Maria e a Cristo. Ma visto che per Cristo venivano usati altri riferimenti, come sodhfaesta sunnan leoma , cioè “lo splendore giusto del sole”, Tolkien conclude che, per analisi comparata dei testi, Earendel è in generale proprio San Giovanni Battista.16 Si noti che in anglosassone terra è middangeard , cioè Terra di Mezzo. 17La Realtà in Trasparenza, lettera 297. Le versioni esistenti di questa poesia sono riportate in Racconti Perduti.18 Se ne contano solo due più quella fra l'Umano Aragorn e la Mezzelfa Arwen. 19 Silmarillion, cap. XXIV. 20 Silmarillion, cap. XXIV. 21 Silmarillion, cap. XXIV. 22 Silmarillion, cap. XXIV.23 Il Signore degli Anelli, VI, II. 24 Silmarillion, cap. XXIV.25 Parola sorella del greco arktos, orso. 26 Cfr. Racconti Incompiuti.27 Silmarillion, cap. XI.28 La mitologia tolkieniana segue la tradizione del nord europeo, per cui il Sole è femminile, la Luna maschile. 29 Ricordiamo che stiamo parlando di epoche precedenti l'avvento degli uomini e la lotta dei Valar contro Morgoth ai tempi di Earendil. 30 Silmarillion, cap. XI.31 Cfr. La Realtà in Trasparenza, lettera 54. 32 Cantico di Daniele.

Arandilme

lunedì 25 agosto 2008

sabato 23 agosto 2008

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mercoledì 20 agosto 2008

La spada dalle sette stelle

La spada di Elendil fu forgiata nuova da fabbri elfici, e sulla lama fu inciso un emblema composto da sette stelle fra la Luna crescente e il Sole raggiante, e circondato da molte rune; Aragorn figlio di Arathorn partiva per combattere sulle soglie di Mordor. Splendente era la spada di nuovo intera: la luce del sole vi risplendeva rossa, e quella della luna vi brillava fredda, ed il filo vivo era duro ed acuminato. Aragorn le diede un nuovo nome, e la chiamò Anduril, fiamma dell’Occidente.1 Elrond ha rimesso la spada nelle mani di Estel, e gli ha donato una specie di investitura. I Mentori offrono diffusamente doni ai loro protetti, a volte magici, sovente armi. Già Perseo ne ricevette dai suoi numi tutelari. Nel mito e nell’epos della cavalleria delle origini era diffusa l’individuazione di poteri magici nelle spade, strumenti speciali dell’affermazione del potere stesso, in esse racchiuso, sulla vita e sulla morte. La tradizionale attribuzione del nome alla spada sembra riconoscere ad essa una volontà propria e un lignaggio indipendente: è il caso anche della spada nera, Anglachel di Beleg, riforgiata in Gurthang per Turin, che poi ebbe il suo sangue in risarcimento di quello del suo primo padrone, versato da Turin stesso, seppur per errore.Spesso queste armi, e soprattutto le spade, individuano anche il lignaggio degli eroi che le ricevono, come per Artù, che in Excalibur viene riconosciuto re, complice Merlino. Ma anche Orlando è riconosciuto nel suo alto lignaggio dallo stesso suo zio, Carlo Magno, che, attribuendogli la celeste spada Durendal, ne riconosce anche il valore. Lo stesso Carlo portava la spada Altachiara, detta la Gioiosa. E ancora Odino dona al suo protetto Sigmund la spada Gram, Irata, nella Volsunga Saga, nell’Edda poetica e in quella in prosa di Snorri. Quest’ultima ha una storia e una sorte paragonabili in qualche modo al destino di Narsil. Sigmund viene gravemente ferito in battaglia, e con lui perisce il suocero Eylimi. La sua sposa lo prega di guarire, perché possa essere vendicato suo padre, ma Sigmund sa che la sua ora è giunta poiché lo stesso Odino (che da allora verrà giudicato traditore) ha spezzato la lama che precedentemente gli aveva donato. La vendetta allora è nelle mani del figlio che Hjordis sua moglie porta in grembo, Sigurd (il Sigfrido, della Canzone dei Nibelunghi), e che dovrà essere allevato nell’amore e nella saggezza perché divenga il migliore dei Volsunghi e possa degnamente impugnare la spada paterna, con la quale compiere imprese che mai cadranno nell’oblio e che verranno cantate finché il mondo duri. In effetti, la predizione augurale di Sigmund si compie e Sigurd compirà gloriose imprese, la più grande delle quali è l’uccisione del drago Fafnir.La storia era ben nota a Tolkien, già dagli anni dell’infanzia, e se ne ritrova una traccia, assieme all’analoga avventura di Beowulf, nelle vicende di Bilbo e Smaug, ma anche, in modo ancora più metabolizzato e come sempre estremamente personalizzato e reso in qualche modo universale, nell’andamento della storia di Narsil. Come sempre, infatti, in Tolkien non si può tanto parlare di imitazione di fonti antiche, quanto, e più, di ricreazione geniale di questo universo, di infusione in esso di “Maestà. Splendore. Nobiltà. Sacrificio. L’ineffabile. Bellezza. Male. Bontà. L’ordinario. L’eroico. Mistero. Felicità. Beatitudine.”2 , e di illuminazione, esaltazione e valorizzazione tramite l’esperienza del cattolicesimo propria a Tolkien stesso.Nella storia di Sigurd e Gram vi è una componente che è estranea, infatti, a Tolkien, che, quando ne parla, è sempre con un conseguente senso di critica verso di essa, ed è la vendetta. Gram viene riforgiata per un cavaliere perfetto che, però, è anche chiamato a vendicare la sua gente e per ritorsione la stirpe di Feanor condurrà gran parte degli Alti Elfi alla perdita di Aman. La vendetta, il riscatto violento della perdita del proprio onore o dei beni della propria stirpe, compresa la vita, in Tolkien è visto come un male, dipendente dalle operazioni di Morgoth, invidioso della preferenza di Iluvatar ai suoi figli, Elfi o Uomini. E’ vendetta quella che si ritrova nella sorte di Narsil, come riscatto dell’uccisione di Elendil da parte di Sauron o è qualcosa di più che è implicato nella riforgiatura della spada dell’antico Re? Il nemico che Narsil deve riaffrontare non è più un preciso essere da eliminare per vendetta, ma è un nemico vero, più subdolo perché costringe ad una lotta non solo delle armi ma anche, e più, dello spirito. E’ un male che agisce in tutti i personaggi al livello non solo esterno ma anche, più intensamente, interiore poiché lavora sul senso della vita, proponendo scappatoie alla morte e idoli, come l’Anello, che ingannano profondamente la coscienza e la capacità di discernimento, portando alla disperazione. Questo accade a tutti, da Aragorn a Frodo, da Theoden a Boromir, da Saruman a Denethor. In tutti vi è la ricerca del senso della propria vita, con esiti diversi. La lotta si sposta dal senso di vendetta e di gloria personale ad una individuale e corale resistenza contro Sauron e le sue lusinghe. Aragorn, portando ancora la spada di Elendil, è così uno fra i tanti, sebbene il suo ruolo sia diverso. Il Re è dunque un primus inter pares nella lotta per una libertà che non è solo politica (come troppi hanno pensato) ma soprattutto libertà responsabile di compiere il bene, nelle sue forme varie e diverse per ognuno.E Narsil-Anduril viene ad assumere connotati particolari, proprio perché emblema al centro di una lotta di questo genere. Vero è che, come molte nobili spade dell’antichità, presenta rune di buon augurio, ma sul loro significato e natura Tolkien tace. Allora spostiamo l’attenzione sugli altri particolari.Intanto la spada è simbolo ambivalente di virtù militare, forza e valore virili, ma anche morte, sangue e guerra. E’ strumento affilatissimo che rappresenta anche la scelta, il discernimento fra buono e cattivo e quindi da sempre simbolo della giustizia (cfr Lv 26, 25; Is 34, 5; Ez 21, 15). Durante i riti dell’incoronazione, la spada rappresentava proprio la giustizia, che il Re era chiamato ad incarnare. Nell’Apocalisse al momento del Giudizio esce una spada folgorante dalla bocca di Cristo. E la spada dello Spirito, la parola di Dio, è fra le armi che San Paolo indica per i cristiani, nel combattimento a loro proprio: “Infatti la parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore”3 . Se la spada della parola di Dio, allora, serve a demistificare gli inganni nello spirito, allora come riflesso di ciò, la spada di Elendil viene intesa come contrario dell’azione dell’Anello, che invece obnubila i sentimenti e i pensieri dei cuori. Questa missione è esplicitata in maniera esterna nell’uso fisico che Aragorn ne farà (l’uccisione dei servi di Sauron) ma è anche resa evidente dalla stessa tradizione dei Dunedain del Nord, che ne associano la riforgiatura al momento in cui l’Anello tornerà ad operare visibilmente.L’Anello è ciò che inganna al livello esistenziale chi lo desidera e la spada riforgiata si erge a monito stesso contro gli inganni del nemico, invitando con la sua stessa presenza alla lotta contro il male, soprattutto quello personale e spirituale.Narsil (splendore lunare) diventa Anduril (fiamma dell’Ovest), perché la luce della verità, il canto di Iluvatar sulla creazione e sui suoi figli, è conservata all’Ovest, sede dei Valar, a lui fedeli. Così la spada, nel brillare freddo alla luna e nello sfolgorio infuocato sotto i raggi del sole, perpetua entrambi i suoi nomi, perché la lotta di cui è emblema oggi è la stessa di ieri.Le stesse incisioni degli astri presenti sulla spada possono essere resi interessanti non solo dal punto di vista estetico-immaginativo ma anche da quello interpretativo, se riferite al più ampio corpus cosmogonico-mitico che sottintende al Signore degli Anelli, cioè il Silmarillion e le storie ad esso collegate.Sole e luna, nella cosmogonia tolkieniana, non solo entità astronomiche, ma segni posti in cielo, luminari che fisicamente e simbolicamente dileguino l’oscurità. Varda Elentari pose ancor prima le stelle nel firmamento a favore degli elfi e per lo stesso scopo. Le sette stelle sull’elsa di Anduril possono allora essere l’eco di varie ipotesi interpretative. Se vogliamo, e Tolkien ci perdoni, sette stelle compaiono già nella mano di Cristo. Re-Messia glorioso nell’Apocalisse, che sta per essere intronizzato per regnare con il popolo di Dio. E le stelle sono simbolo degli angeli che reggono le chiese e se Cristo le tiene in mano è perché la parola e la giustizia (la spada a doppio taglio che gli esce dalla bocca) che vengono da lui reggono, proteggono, salvano e vivificano il suo popolo. Un’eco dei re biblici come figura di Cristo, allora, di Davide, Salomone, o anche Melchisedek si affaccia dietro al Re che torna nel Signore degli Anelli. Ma a profilarsi dietro le sette stelle c’è anche Artù, cui la tradizione celtica, soprattutto gallese, associa il Grande Carro dalle sette stelle, l’Orsa maggiore (l’orso era l’animale simbolo di regalità e nella lingua gallese suona arth, arktos in celtico comune, art in Irlanda, arzh in Bretagna). Ed in Galles, Cornovaglia e Inghilterra l’Orsa Maggiore era chiamata fino in tempi recenti Arthur’s Wain (Cerbyd Arthur nella lingua dei druidi), il Carro di Arturo. In Irlanda il Carro diventa di David, King’s David Chariot, un antico Re dell’isola. Tradizione che si perpetua in qualche modo nella presenza del Grande Carro nei vessilli dei Re di Gondor. Ma tutto ciò si ricollega al solito modo di Tolkien di rinnovare, vivificare ed esaltare in modo originale e creativo la tradizione, perché il Grande Carro, Orsa maggiore, è Falce dei Valar nel Silmarillion, segno posto a monito per Morgoth, annuncio del suo giudizio e della lotta finale in cui lo spirito caduto sarà precipitato. Ancora una volta, quindi, anche i particolari a prima vista solo decorativi assumono una pregnanza di significato. La lotta contro Sauron e contro Morgoth suo signore è una lotta antica ed attuale ma anche futura. E se vogliamo anche cosmica, perché coinvolge gli esseri ragionevoli e che posseggono uno spirito, che hanno, perciò, la capacità di scelta sulle proprie azioni, interessando non solo se stessi ma anche tutto ciò che è loro sottoposto. Il metallo di cui è composta la spada proviene dalla terra, ha spesso origine siderea, viene lavorato con l’azione del fuoco e dell'aria (il mantice che ravviva la fiamma) e poi passato nell’acqua. Tutti gli elementi che tradizionalmente compongono il creato hanno parte nella sua forgiatura, ma colui che le forgia è l’armaiolo. Sotto le mani dell’uomo, attraverso le sue scelte e i suoi atti, la natura viene coinvolta nella lotta. In Anduril è presente anche la natura della Terra di Mezzo, il cui destino è legato alle scelte dei suoi abitanti, alle loro passioni e ai loro combattimenti. La natura attende, infatti, come nelle doglie del parto la manifestazione dei figli di Dio (cfr. Rm 8, 19-27): il mondo materiale, nella Rivelazione biblica ma anche nel mito tolkieniano, è creato per l’uomo e partecipa al suo destino. In Anduril, e in chi la impugnerà, viene dunque condensata e riassunta tutta la incessante lotta della Terra di Mezzo, dei suoi abitanti, contro la ingannatrice tela tessuta da Morgoth e dal suo servo Sauron. La spada, poi, nel cristianesimo ricorda la croce, lo strumento attraverso cui si è attuato il disegno di amore di Dio sull’uomo, croce che è patibolo ma anche signum gloriae, poiché ha liberato gli uomini dalla morte e ha posto inizio alla nuova Creazione. La Terra di Mezzo non ha conosciuto l’Incarnazione, per volere dello stesso Tolkien che non amava le metafore, ma la lotta contro Sauron non resta confinata ad una guerricciola eroica fra i buoni e i cattivi, prendendo su di sé, al contrario, problematiche profonde. Perché il potere che si combatte non è tanto costituito da “creature fatte di sangue e di carne [gli orchi etc.]4, ma contro i Principati e le Potestà, contro i dominatori di questo mondo di tenebra, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti [Morgoth è confinato nel vuoto atemporale e Sauron è il suo emissario fisico sulla Terra di Mezzo, ma la sua azione, come rileva il Silmarillion, si attua anche in modi meno concreti e più legati alla libertà delle varie stirpi umane, elfiche etc.]” .La lotta che si profila sullo sfondo, per Anduril come simbolo dell’intera Terra di Mezzo, non è allora una lotta di liberazione politica ma una guerra incessante contro il male, a vari livelli, dalla lotta cosmica dei Valar contro Morgoth, a quella di Aragorn contro gli eserciti di Mordor, a quella di Frodo in se stesso contro l’Anello. Ma su tutto, lo ripetiamo, è presente la Provvidenza di un Dio che libera dal male quando i combattenti sono stremati, quando coraggio e valore cedono alla stanchezza, quando l’Anello ha sfiancato le ultime resistenze di chi ha errato a lungo in terre aride e gelide, con piedi feriti e nella solitudine.
Note:
1 Signore degli Anelli, II, III.
2 Uno sguardo fino al mare (Il Cerchio, Rimini 2004), pag. 72.
3 Eb 4, 12.
4 Ef 6, 12a.
Arandilme