domenica 5 aprile 2009

METEORA


Era rimasto solo ed ora scrutava la vetta di Taen Din, sfiorando la cetra d'argento sotto i faggi stormenti alla brezza d'estate. Lungo le creste fulgide del chiarore della luna piena e tranquilla volteggiavano giovani aquile, gettando richiami alle stelle offuscate.
"Agitate sono le voci delle aquile. Thoriphant grida l'allarme ai suoi sudditi."
Amrûn scrutava nella volta celeste, nel diffuso fulgore lunare, affinando lo sguardo, cercando il tenue sfavillio del Duomo di Varda, cui il volubile viaggio di Tilion sottraeva vigore.
Un passo leggero frusciò nel sottobosco:
"Cosa ti turba, mio signore?"
"Non so, mia giovane Merilin, un'inquietudine mi sorge nel cuore e le aquile sono turbate. Un presagio e un'urgenza di partire errano nella foresta. I faggi fremono e le querce più a valle stanno chiamando alla lontana pianura e al fiume. Dovremo avvicinarci per un breve tempo al regno degli uomini."
"Gli Uomini? Perché disturbare la loro timorosa e flebile vita?"
"Una stella nuova si è accesa allo zenith e il suo debole e livido chiarore è pervaso di bagliori funesti. Dobbiamo lasciare i nostri boschi finché l'astro sinistro non sia spento."
Amrûn pose le labbra al suo corno ornato d'argento e subitaneo e squillante vibrò il richiamo ai compagni dispersi nelle radure del faggeto.
Partirono al riverbero della luna declinante, i piedi leggeri nel sottobosco, invisibili ad occhi profani. Solo gli uccelli dal canto cristallino parevano fremere al loro passaggio, zittendo le melodie finché l'incedere degli elfi si perdeva lontano nel bosco.
La notte li accolse e scesero veloci a valle, salutando le querce ai margini del faggeto, passando nei prati di erbe selvatiche, riverberanti di bagliori dorati, costeggiando le ripide foreste che digradavano a rasentare il fiume. Sfiorarono le Case dell'Estate, un piccolo villaggio in cui Uomini riposavano dalle fatiche dei campi e dei pascoli estivi, aspettando il ritorno alla Città con l'inizio dell'autunno. Dura era la vita degli Uomini nelle Terre dei Monti.
Finché l'alba li colse nell'Imrath, la Lunga Valle del Fiume. Si radunarono in un pioppeto argenteo, solcato dalle acque fluenti, cristalline e dolcemente mormoranti. Le sottili dita dell'aurora, vellutate e lievi come un fiore di meril, inondavano il crepuscolo stanco, trafiggendo il silenzio con la vita di un nuovo giorno.
Più a valle, su un colle accanto ad una cascata, si scorgevano i tetti di paglia delle case della Città, dove gli Uomini si separavano dal sonno per tornare nei campi e nei pascoli.
Amrûn lasciò la sua gente e si diresse verso la Città.
La casa del Signore della Città svettava sul colle, con le sue mura di pietra, i ripidi tetti di legno e metope di terracotta colorata inondate dai primi bagliori dell'aurora.
Amrûn percorse lesto le vie ancora addormentate e giunse alle porte del Signore.
Un Uomo alto era seduto su un seggio di pietra, il sole nascente ad Est versava baleni nei suoi occhi grigi. Era giovane e forte, altero e silente. Diresse lo sguardo verso la figura ammantata e si alzò.
"Chi sei e perché vieni in questo luogo?"
"Sono Amrûn di Taen Din e cerco il Signore degli Uomini della valle".
"L'hai trovato. Cosa desideri?"
Amrûn lasciò scivolare il manto e svelò la sua stirpe. L'Uomo restò silenzioso, ma posò una mano sul petto e chinò il capo in segno di saluto.
"Lunghi sono gli anni da quando la mia stirpe e la tua si sono allontanate. Ma la mia gente conserva le storie remote dell'amicizia che ci unì. Dimmi, dunque, cosa ti ha spinto a separarvi dai vostri boschi, su nelle montagne silenti?"
"Un presagio e una minaccia si sono accese nel mio cuore. Un astro nefando è sorto nel cielo e il mio cuore mi dice che presto nulla si salverà dei boschi tanto amati, della nostra verde casa. Ma il mio spirito è inquieto, perché molti della tua gente sono ancora sui monti."
Khôr restò immobile, valutando le parole di Amrûn. Meditò sulle storie antiche, che narravano della sapienza degli Elfi e della loro capacità di scrutare cose che gli Uomini non sanno vedere. Infine guardò fisso l'Elfo davanti a lui e prese una decisione.
"Manderò messaggeri perché la gente che è sui pascoli dei monti torni velocemente a valle."
Chiamò un uomo e diede istruzioni. Un messaggero partì presto su un saldo cavallo da montagna, per portare gli ordini del Signore agli uomini sulle giogaie. Lo scalpitio degli zoccoli risuonò nel villaggio, mentre la presenza di Amrûn cominciava ad essere notata.
"E' tempo che io raggiunga la mia gente."
Khôr lo osservò e poi parlò:
"Prega la tua bella gente di onorare la mia dimora per questa notte, in onore dell'antica amicizia e come ringraziamento dei tuoi servigi."
Amrûn restò un momento silenzioso ma poi sorrise a Khôr.
"E' giunta l'ora in cui le nostre genti tornino ad incontrarsi, per un breve lasso di tempo. Verremo nella tua dimora."
La gente dei boschi fu accolta nella grande Sala del Fuoco, una meraviglia per il popolo di Khôr, ma troppo ombrosa e angusta per gli occhi degli Elfi. La Signora della Città, offrì loro il calice dell'accoglienza, colmo di vino frizzante e ricco, scintillante dei bagliori dei campi dorati della costa. Furono preparati cibi delicati e dolciumi al miele, frutti succosi e bevande dissetanti. La voce cristallina degli Elfi si levò limpida nella calura del giorno d'estate.
Furono narrate le storie antiche e canti furono innalzati. Gli Uomini dell'Imrath rinnovarono l'amicizia degli avi con il popolo misterioso dei boschi.
Ma la notte giunse.
Un'oscurità densa di presagi scese violenta sul crepuscolo e le stelle furono velate.
Una fiamma oscura brillava nel cielo plumbeo.
Uomini ed Elfi si mescolarono nella notte, gli occhi a scrutare le tenebre, silenzio ed attesa smarrita nei cuori.
Khôr era diritto accanto ad Amrûn. Nei suoi occhi l'astro funesto versava lampi d'ametista.
"Gli uomini sono scesi dai monti. Hanno lasciato greggi e campi. Hanno portato con loro paura e timore. Non hanno quasi più nulla"
"Posseggono la vita."
Khôr annuì e il silenzio tornò fra le vie. D'un tratto ombre solcarono il cielo immoto. Le aquile seguivano Thoriphant, loro signore, in luoghi lontani, gettando all'astro crudeli richiami e amari lamenti.
Amrûn le seguì con gli occhi, finché furono lontane, oltre le creste dei monti dell'est.
"Anche le aquile lasciano le erte rupi della loro dimora."
La notte era già vecchia quando l'astro sembrò palpitare del freddo che precede l'alba. Amrûn trasalì e Khôr sollevò il viso. Si alzò. Una frenesia si impossessò della sua gente. La sua voce si alzò allora sulle grida e il pianto, a sostenere il coraggio. Gli elfi rimasero fermi, come antiche statue avvolte nell'ombra dei secoli finché una vampa di fuoco gelido e bianco squarciò l'oscurità. Un vento furioso s'impadronì dell'aria e un fragore di mille tuoni scosse le montagne fin nelle fondamenta. La terra tremò e portò la trenodia di alberi e fiori morenti nel pensiero degli elfi.
Gli Uomini cercarono rifugi ma essi, il popolo dei boschi, restavano immersi nell'ultimo canto dei faggi e delle querce, dei minuti garofani dei monti, delle dolci margherite e dei bucaneve delicati. Tutto moriva. Nelle loro menti, nelle pendici dei monti, nel fuoco di una stella smarrita nel cielo del mondo. Il turbine spazzava violento attorno a loro, portando con sé le lacrime di pianto, strappandole dai loro occhi profondi, annientandole in miriadi di stille, confondendole nel sapore amaro della terra bruciata. Ma gli elfi restarono immoti.
Finché una pioggia torrenziale inzuppò le loro vesti nell'aurora ottenebrata di una notte di disperazione. Un fiume brutale trascinava a valle ciottoli e polvere, lacerando le strade disselciate e lambendo i manti foschi degli elfi dolenti. Fu allora che Khôr li scosse dalla desolazione, trascinando Amrûn nella sua casa, richiamando gli altri, rinvigorendo la fiamma nel focolare.
La pioggia tempestava i tetti, assordante e gelida, nera di fuliggine e di cenere degli alberi morti.
Nella sala risuonava il silenzio nella tempesta.
Amrûn fissò i suoi occhi in quelli di Khôr.
"Addio. La voce degli alberi ci invita a partire. Lontani sono i luoghi che ci aspettano: attendi il nostro ritorno"
Khôr lo guardò in silenzio, restandogli ignote le motivazioni di questa partenza repentina.
"Addio." Riuscì a mormorare, scrutando le ombre, tremanti alla luce del fuoco, che si muovevano leggere verso la porta.
Gli elfi percorsero le strade del villaggio, persi nei loro pensieri, nel silenzio attonito rotto ora solo dall'ululato lontano di lupi solitari.
Un lungo viaggio li attendeva e mesto era il loro cammino.

Triste passò l'estate e si allungarono le ombre sui monti, strisciando fra gli alberi infranti, in un autunno avaro di colori. Nessuno osò porre il piede su, negli alpeggi un tempo fioriti e ombreggiati da fronde antiche. Timore e tristezza colmavano il cuore degli Uomini della valle.
Venne il tempo del gelo e della neve, e il popolo di Khôr attese mesto la primavera. Nelle case il fuoco divorava scheletri anneriti di faggi e querce sradicati. Lenta nel silenzio cadeva la neve, coprendo dimore e tristezza, lasciando nel cuore l'attesa muta della primavera.
L'inverno fu duraturo e affamato, e le feste dell'equinozio si avvicinarono parche di entusiasmo.
Quando il sole giunse al tramonto nel trilite del calendario, Khôr diede l'annuncio che la primavera era venuta. L'indomani sarebbe giunta la festa. Ma pochi erano gli agnelli negli ovili, e il tempo degli alpeggi pareva leggenda di tempi oscuri e obliati.
Nel tenue azzurro dell'aurora Khôr spiò i primi raggi del sole nascente. Ma una luminosità soffusa proveniva dalla pianura, danzando fra gli alberi ancora scuri, punteggiando di scintillanti sfavillii i germogli freschi sui rami. Khôr strinse gli occhi per meglio guardare. Ad un tratto, lontano nel verde, si alzò un canto limpido e sereno. Voci perfette tagliavano l'attesa nell'alba, penetrando nel silente corteo del popolo di Khôr, fermo nel cerchio del trilite, sulla cima del colle, alle spalle del Palazzo.
Il canto portò parole ignote alla lingua di Khôr, ma conosciute e dolci per i cuori. La primavera giungeva cantando nuovamente nella musica degli elfi di Amrûn.
A Yavanna linyenwa
lóterielle laituvalmes!
Ilu Ilúvatar an cáre Eldain
a Fírimoin, Híni Ilúvataro!
Nórelv'entuluva vanya,
nórelv'entuluv'aldarwa!
Aiya Ilúvatar, carindo ilúvala!
E di nuovo nei cuori sorse una speranza feconda di letizia. Corsero sulle pendici del monte, giungendo a valle nell'abbraccio luminoso degli amici per lungo tempo lontani e crebbe la certezza della gioia.
Gli Elfi non erano perduti. La bellezza tornava nel mondo offuscato dal dolore.
E gli Uomini si unirono al canto armonioso dei Priminati, al frusciare delle foglie nei boschi, al cinguettio degli usignoli e allo sfavillio del sole e delle miriadi di stelle nella volta splendente di Varda.
Insieme cantarono:
Aiya Ilúvatar, carindo ilúvala!



Post scriptum: Esiste fra le montagne d'Abruzzo, al di sotto delle radici del monte Sirente, un piccolo lago, perduto nella prateria ai piedi delle faggete. Si tratta di un cratere, causato dalla caduta di un meteorite, avvenuta mille e quattrocento anni fa. In epoca storica, quindi, ma interpretato come evento misterioso dalle popolazioni del luogo, che ne fecero anche memoria popolare, lungo i secoli, ritraendolo sugli affreschi della Natività. Sulla scia di questo evento, allo stesso tempo storico e mitico, voglio dedicare questo racconto alla mia terra, a mio padre e a mio nonno, che a lungo hanno vagato, come i padri dei loro padri, fra i faggi del Sirente.