venerdì 31 ottobre 2008

Sir Orfeo (traduzione non definitiva)

Spesso leggiamo e troviamo negli scritti
E anche i studiosi ci fan conoscere
I lai che sono nei canti
Composti su cose meravigliose.
Alcuni sulla guerra altri sul dolore,
Alcuni sulla gioia altri sulla letizia
Alcuni sul tradimento altri sull'inganno
D'antiche avventure che un dì furono
Alcuni di beffe altri di ribalderie
E molti su cose accadute in Feeria.
Di tutto ciò che uomo può vedere,
Ma soprattutto d'amore, invero, essi trattarono.
Tutti questi lai in Britannia furon scritti,
Prima trovati, e poi proposti,
D'antiche avventure in giorni passati,
Su questo i Britanni fecero questi lai,
Che i re possono udire ovunque,
Di tutte le meraviglie che furono.
presero l’arpa con gioia e gioco,
Per far questi lai e donar ad essi un nome.
Delle avventure antiche,
Qualcosa, non tutto, posso narrarvi.
Ascoltate, signori che siete giusti,
Ed io di Orfeo vi narrerò.





Orfeo era un re
Gran signore in Inghilterra,
Fidato e coraggioso,
Cortese e prodigo nei suoi doni.
Suo padre veniva dalla stirpe di Re Pluto,
e sua madre da Re Juno,
creduti un tempo dei
per le avventure che fecero e narrarono.
[Orfeo più d'ogni cosa
Amava la gioia dell'arpa.
Certo era ogni buon arpista
D'aver da lui molto onore.
Egli stesso l'arpa suonava
Ed era tanto bravo e fine
Che sapeva che per nulla
Vi era ogniddove suonatore migliore.
Nel mondo mai nessun nacque
Che sedette davanti ad Orfeo -
E potesse udirlo suonare -
Se non pensando che
Si trovasse in una delle gioie del Paradiso
Tanto dolce era la sua musica.]
Questo re dimorava in Tracia,
Città di nobili fortificazioni,
Poi Tracia ebbe nome
Winchester, senza dubbio.
Il re aveva una nobile regina,
Il cui nome era Dama Euridice,
La più dolce delle dame invero,
Che incedeva con le sue membra
Piena d'amore e di bontà –
E nessun uomo poteva narrarne la bellezza.
Accadde al principio di maggio
Quando il dì è lieto e caldo,
E le piogge d'inverno passate,
Ed ogni prato è pieno di fiori,
E boccioli pendono da ogni ramo,
e in ogni dove cresce la gioia,
Che la sua regina, Dama Euridice,
Prese due delle sue nobili ancelle,
E andò nel tardo mattino,
Per aver diletto in un frutteto,
Per vedere i fiori sbocciare e crescere
E per sentire gli uccelli cantare.
Sedettero tutte e tre
sotto un dolce albero innestato,
E presto invero questa dolce regina
Cadde addormentata sul prato.
Le ancelle non vollero destarla,
Ma la lasciarono adagiata a prender riposo
Così che dormì fino al pomeriggio
E mezzodì era passato.
Ma non appena fu desta
Ella gridò, e fece gran lamento
Agitò mani e piedi,
E graffiò il suo volto - che sanguinò molto -
E fece a pezzi la sua ricca veste
E fu così fuor di senno.
Le due ancelle presso di lei
Non poterono più sopportarlo,
Ma subito corsero al palazzo
E narrarono a signori e cavalieri
Che la loro regina era divenuta folle,
Pregandoli di andare a prenderla.
Cavalieri e dame accorsero,
Più di sessanta damigelle
Andarono nel frutteto verso la regina,
La portarono via sulle braccia
E infine la condussero a letto,
E la tennero colà al sicuro;
Ma ella ancora gridò
E alzandosi voleva andar via.
Quando Orfeo seppe questi eventi
Per lui il dolore fu sommo.
Andò con dieci cavalieri
Al suo capezzale e stette davanti alla regina
La mirò e disse con gran pietà:
"O vita mia, cos'hai
Tu che sei sempre stata così quieta
Ora gridi in questo strano modo stridulo?
Le tue membra, un dì sì bianche,
Ora sono tutte graffiate dalle tue unghie.
Ahimè! Il tuo viso, un dì sì roseo,
Ora è tutto pallido, come se tu fossi morta;
Ed anche le tue dita sottili
Sono tutte sanguinanti e smorte.
Ahimè! I tuoi occhi amabili
Sembrano quelli di un uomo verso il suo nemico!
Ah, mia signora, io v'imploro, pietà!
Abbandonate queste tristi grida
E ditemi ciò che v'attrista, e come,
E cosa vi possa ora aiutare."
Quindi ella infine stette immobile
E cominciò a piangere veloce
E disse al re così:
"Ahimè, mio signore, sire Orfeo,
Sin dal primo istante in cui restammo insieme
Mai l'un verso l'altro fummo adirati
Ma sempre ti ho amato
Come la mia vita, così come tu a me,
Ma ora dobbiamo separarci.
fa del tuo meglio, ché io debbo andare".
"Ahimè!" egli rispose, "sono perduto!
Dove vai, e da chi?"
Ovunque andrai verrò con te
Ovunque andrò verrai con me."
"No, no, sire, ciò non può essere!
Ti dirò cosa accade.
Mentre a mezzodì giacevo
E dormivo nel nostro frutteto,
Vennero a me due bei cavalieri,
Armati come si conviene,
E mi ordinarono di seguirli veloce
Per parlare con il sire loro re.
Ed io risposi con parole risolute
Che non intendevo né mi accingevo a farlo.
Allora spronarono il cavallo il più lesto possibile
E altrettanto lesto il loro sire arrivò,
Con cento cavalieri e più,
E pure cento dame
Tutti su candidi destrieri;
Bianchi come latte erano le loro vesti.
Mai avevo prima veduto
Creature così belle e gentili.
Il re aveva una corona sul capo,
Non d'argento né d'oro rosso
Ma forgiata in preziosa gemma
E brillava luminosa come il sole.
E non appena si appressò a me
Mi prese, lo volessi o no,
E mi fece cavalcar con lui
Al suo fianco, su un palafreno,
E mi portò al suo palazzo
Ben ornato in ogni guisa,
E mi mostrò castelli e torri,
Fiume, foresta, boschi in fiore,
E i suoi bei corsieri
E infine mi portò di nuovo a casa
Nel nostro frutteto,
E poi mi disse così:
"Guarda, o dama, di essere
Domani qui sotto quest'albero innestato..
Quindi verrai con noi
E vivrai con noi per sempre.
Se tu a noi porrai qualche impedimento
Ovunque sarai, verrai presa,
E le tue membra così fatte a pezzi
Che nulla ti sarà d’aiuto;
E anche se fatta a pezzi
Comunque sarai portata con noi."
Quando Re Orfeo udì la cosa,
"Che sventura!" disse "ahimè! Ahimè!
Preferirei piuttosto perdere la vita
Che perdere la Regina, mia sposa!"
Chiese consiglio ad ogni persona,
Ma nessuno poté aiutarlo.
Il giorno seguente venne mezzodì
E Orfeo indossato avea le armi
Portando con sé dieci cavalieri
Ben armati, vigorosi e severi,
Assieme alla regina se ne andò
All'albero innestato.
Fecero la guardia su entrambi i lati
E giurarono che avrebbero tutti patito
E sarebbero morti colà
Piuttosto che lasciar andare via la regina.
Ma d'improvviso fra loro
La regina fu strappata via
Presa con un incanto;
Gli uomini mai seppero dov'ella andò.
Allora vi furono grida, pianto e lamenti!
Il Re tornò nelle sue stanze
E svenne sul selciato
E fece così gran pianto e lamento
Che la sua vita parve quasi spenta.
Non c'era alcun rimedio.
Chiamò tutti i suoi baroni,
Conti e signori di gran fama
E quando tutti furono giunti
"Signori," disse, "qui davanti a voi
Io ordino il mio alto reggente
Per governare d'ora in poi il mio regno
E in mia vece
Reggerà le mie terre.
Poiché ho perduto la mia regina
La più dolce dama mai nata,
Mai guarderò altra donna.
Me ne andrò nelle terre selvagge
E vivrò sempre colà
Con le bestie selvatiche nelle grigie selve.
E quando saprete che sarò morto,
Riunitevi in assemblea
E sceglietevi un nuovo re.
Ora fate del vostro meglio con i miei beni.
Allora vi fu pianto nella sala
E grandi grida fra loro.
Difficilmente poteva giovane o vecchio
Proferir parola per il pianto.
Quindi tutti caddero in ginocchio
E lo pregarono, se quella era sua volontà,
Di non andare via da loro.
"Basta!" rispose, "avverrà così".
Tutto il suo regno abbandonò,
Solo un mantello da pellegrino recò con sé,
Non ebbe né tunica né cappuccio,
Né camicia, né altro bene,
Solo la sua arpa prese comunque
E uscì a piedi dal cancello,
Nessuno poté accompagnarlo.
Che pena! Che pianto e che lamento vi fu
Quando colui che aveva portato corona di re
Uscì in tal povertà dalla sua città!
Nella selva e attraverso la landa
Andò nelle terre selvagge.
Nessun conforto trovò per sé,
Ma sempre visse in grand'afflizione.
Egli che aveva pellicce variegate e grigie
E sul letto bissi purpurei,
Ora nella dura landa dormì,
Con foglie ed erba si coprì,
Lui che aveva un dì castelli e torri,
Fiume, foresta, boschi e fiori,
Or che iniziava a nevicare e gelare,
Questo re dovette fare del muschio il suo giaciglio.
Lui che aveva cavalieri di pregio
Genuflessi davanti a lui, e dame,
Ora non vedeva altro che lo compiacesse
Se non serpi selvatiche striscianti accanto a lui.
Lui che possedeva l'abbondanza
Di carne e bevande, di ogni squisitezza,
Ora tutto il dì scavava e raspava
Fino a trovare il suo cibo fatto di radici.
D'estate viveva di frutta selvatica,
E bacche di poca sostanza,
D'inverno poteva pure non trovar nulla
Tranne radici, erba e cortecce.
Tutto il suo corpo era smagrito
Per le privazioni, e tutto screpolato.
Signore! Chi può dire il dolore
Che il re soffrì per dieci anni e più?
I peli della barba, neri ed ispidi,
Fino alla cinta erano cresciuti.
La sua arpa, nella quale era tutta la sua gioia,
Nascose in un albero cavo,
E quando il tempo era chiaro e luminoso,
Prendeva la sua arpa volentieri
E suonava seguendo il suo desiderio.
In tutto il bosco il suono risuonava
Sì che tutte le bestie selvatiche
Si radunavano attorno a lui per goderne,
E tutti gli uccelli che c'erano
Venivano e sedevano sulle radici d'erica
Per ascoltare la sua arpa
Tanto vi era in essa melodia,
Ma quando il suo arpeggiare finiva
Nessuna bestia voleva restargli accanto.
Poteva spesso vedere vicino
Nel caldo meriggio,
Il re di Feeria col suo seguito
Andare a caccia tutt'intorno
Con profondi richiami e squilli di corni,
E segugi che abbaiavano,
Ma non catturavano alcuna bestia,
Ne egli mai seppe dove andassero.
Altre volte poteva vederlo
Con una grande armata accanto,
Ben equipaggiata, dieci centinaia di guerrieri,
Ognuno armato completamente,
Di aspetto fiero e coraggioso,
Con molti vessilli spiegati,
E ognuno con la spada sguainata,
Ma mai seppe dove andassero.
Altre volte ancora vide altre cose,
Cavalieri e dame che venivano danzando
In vesti eleganti, con maestria,
Con passi aggraziati e leggeri:
Tamburi e trombe andavano con loro
Ed ogni sorta di menestrelli.
E un giorno vide accanto a lui
Sessanta dame a cavallo,
Gentili e vivaci come uccellini sui rami:
Nessun uomo era con loro.
E ognuna teneva un falcone sul braccio,
E cavalcavano cacciando lungo un fiume.
Per gioco fecero gran bella caccia:
Germani, aironi e cormorani.
Gli uccelli si alzavano sull'acqua
E i falconi li seguivano bene.
Ciascun falcone uccideva la sua preda.
Questo vide Orfeo e rise:
"In fede mia" disse, "questo è proprio un bel gioco!
Andrò li, in nome di Dio,
E’ uno svago bello a vedersi!"
Si alzò, e si mosse
E cominciò ad avvicinarsi alle dame,
Guardò, e dopo aver ben osservato,
Vide che fra le altre cose
C'era la sua regina, Dama Euridice.
Ardentemente la guardò, ed ella lui,
Ma nessuno parlò all'altro.
Ella lo guardò con tristezza,
Lui che era un dì così ricco e nobile
E le lacrime uscirono dai suoi occhi.
Le altre dame videro ciò
E la fecero cavalcare via:
Non doveva più sopportare la vista di lui.
"Ahimè" disse lui, "ora sono sventurato!"
Perché mai non mi prende ora la morte?
Ahimè, sventurato, ché non posso
Morire dopo questa vista!
Ahimè! Troppo è durata la mia vita,
Ché non posso con la mia sposa
Né ella con me scambiar parola!
Ahimè! Perché non mi si spezza il cuore?
In fede!" disse, "sia quel che deve essere,
Ovunque cavalcheranno queste dame
La stessa via io percorrerò,
Non mi curo né di vivere né di morire!"
Gettò via subito la sua cappa da pellegrino
E si mise la cetra in spalla
Ed ebbe gran desio di andare:
Egli non evitò né radice né pietra.
Le dame cavalcarono dentro una rupe
Ed egli dietro di loro, e senza indugio.
Quando fu dentro la rupe
Ben tre miglia e più,
Venne ad una contrada meravigliosa
Luminosa come il sole in un giorno d'estate,
Dolce e pianeggiante e tutta verde,
Senza accenni di alture o burroni.
In quella terra egli vide un castello,
Ricco e regale e meravigliosamente alto.
Tutto il muro esterno
Era chiaro e splendente come cristallo;
Tutt'intorno vi erano centinaia di torri,
Meravigliose e con poderosi bastioni;
I contrafforti fuoriuscivano dal fossato
In arcate decorate d'oro rosso;
La sala era tutta adorna
di smalti di diversi tipi.
E dentro vi erano varie dimore
Tutte in pietre di pregio.
Anche il più modesto pilastro che guardò
Era tutto d'oro brunito.
In quella terra vi era sempre luce,
Poiché quando era notte e buio
La luce delle pietre preziose splendeva
Come fa il sole a mezzogiorno.
Nessun uomo può dire, né immaginare,
Le splendide opere che vi erano forgiate,
Perciò egli si trovò a pensare
Che quella fosse la superba corte del Paradiso.
In tal castello le dame scesero da cavallo;
desideroso di seguirle, se poteva,
Orfeo bussò al portone,
Dove pronto era il custode,
che chiese che cosa volesse.
"In fe’ mia!" rispose, "io sono un menestrello!
La mia arte per il diletto del tuo Signore,
Se questo è la sua gentile volontà".
Il custode aprì il portone
E lo fece entrare nel castello.
Colà egli stette a guardarsi attorno,
Così vide accanto al muro
Una folla lì radunata,
Che pareva morta, ma non lo era.
Alcuni erano senza testa,
Altri senza braccia o piedi,
Altri avevano il corpo ferito,
Altri erano folli, e saltavano,
Altri sedevano a cavallo in armatura,
Altri erano stati strangolati nel mangiare,
Altri erano affogati nell’acqua,
Altri disseccati dal fuoco.
Colà erano mogli nelle culle,
Alcune morte, altre folli,
E molte un incanto le teneva colà
Come se dormissero nel meriggio.
Ognuno stava così in quel luogo,
Trascinato da un incantesimo di Feeria.
Colà egli vide la sua sposa,
Dama Euridice, la sua vita beneamata,
Che dormiva sotto un albero innestato,
E la riconobbe dalle vesti.
E quando ebbe contemplato tutte queste meraviglie,
Andò nella sala del Re.
E vide una cosa meravigliosa,
un baldacchino splendido e brillante,
Dove erano assisi il re
E la sua regina, bella e dolce.
Le loro corone, le loro vesti erano così luminose
Che a stento riusciva a mirarle.
Quando ebbe tutto contemplato
Si inginocchiò davanti al re.
"O Signore," disse, "se è tuo desiderio,
Ascolterai i miei canti."
Il re rispose: "Chi mai sei tu,
Che ora sei giunto qui?
Né da me, né da alcun messo
Sei qui stato chiamato;
Da quando io sono re,
Nessuno mai ho trovato così imprudente
Da osare venire qui a noi
Senza che io stesso l'abbia convocato."
"Signore," rispose, "vi credo,
Non sono che un povero menestrello;
E, signore, è nostro costume
Cercare la dimora di molti signori,
Anche se non siamo invitati,
E offrire la nostra musica."
Egli allora sedette davanti al re
E trasse dalla sua arpa un suono così lieto,
E da essa tali accordi, i migliori che poté,
E diede inizio a note così estasianti,
Che tutti coloro che erano nel palazzo
Si recarono presso di lui,
E sedettero ai suoi piedi,
Pensando che la sua musica era dolcissima.
Il re ascoltò e stette immoto
Desiderando udire la sua musica.
Gran piacere ebbe ai suoi canti
E così la sua nobile regina.
Quando egli portò a compimento i sui arpeggi,
Disse a lui il re:
"Menestrello, gradii molto il tuo canto.
Ora chiedimi quel che vuoi,
Generosamente ti ricompenserò.
Ora parla, ed otterrai."
"Signore," disse, "ti prego
Che tu mi doni
La medesima dama, d'incarnato luminoso,
Che dorme sotto l'albero innestato."
"No!" rispose il re, "giammai avverrà!
Sarebbe una mal assortita coppia,
Poiché tu sei magro, rozzo e scuro,
Ed ella è amabile, senza macchia,
Una cosa detestabile sarebbe, invero,
Di vederla in tua compagnia."
"Oh sire!" rispose, "re gentile,
Ben più detestabile sarebbe
Udire una menzogna sulle tue labbra!
Poiché, sire, or ora dicesti
Che quel che desideravo avrei ottenuto,
Allora devi mantenere la tua parola."
Il re disse: "Poiché questo è vero,
Prendila per mano, e va',
E spero che sarai con lei felice."
Egli si inginocchiò e in fretta ringraziò
Prese la sua sposa per mano
E si allontanò lestamente da quella terra,
E abbandonò quella gente.
Così com'era venuto, egli se ne andò.
Viaggiò lungamente
Finché a Winchester arrivò,
A quella che era la sua città,
Ma in cui nessuno sapeva chi fosse.
Non andò più in là del limite della città
Poiché non voleva essere riconosciuto,
Ma con un mendicante, la cui casa era invero piccina,
Egli prese dimora
Per sé e la sua sposa,
Come un menestrello dalla vita grama,
E chiese notizie su quella terra,
E su chi avesse il regno nelle mani.
Il povero mendicante nella sua casupola
Gli narrò ogni cosa,
Come la regina fu rapita
Dieci anni prima, con un incanto,
E come il re se ne andò in esilio,
Nessuno sa dove,
E come il sovrintendente amministrò la terra,
Ed altro ancora gli narrò.
Il dì seguente verso mezzogiorno,
Lasciando colà la sua sposa,
Vestì i panni del mendicante,
Prese la sua arpa
Ed andò in città
E molti lo videro.
Signori e coraggiosi baroni
Cittadini e dame accorsero a vederlo.
"Guarda!" dicevano. "Che uomo!
Come lunghi ha i capelli!
Guardate la barba che gli tocca il ginocchio!
É nodoso come un albero!"
E, mentre andava per la strada,
Il suo sovrintendente incontrò
E forte lo chiamò:
"Sire sovrintendente!"disse. "Vi scongiuro!
Sono un povero arpista di lontano
Aiutatemi nella mia afflizione!"
Rispose il sovrintendente: "Vieni meco, vieni
Dai miei beni tu puoi prendere qualcosa.
Ogni bravo arpista è benvenuto presso di me
Per amore del mio Signore, Ser Orfeo."
Nel castello il sovrintendente si sedette al tavolo -vt
E molti signori erano con lui;
Vi erano trombettieri e cembalisti,
Vari arpisti e violinisti .
Insieme creavano una dolce melodia
e Orfeo sedette immoto nella sala
E ascoltò. Quando tutti s'acquietarono
Prese la sua arpa e l'accordò
Poi suonò le più dolci melodie
mai udite da uomo vivente.
Ognuno fu preso dalla sua musica,
Il sovrintendente lo scrutò e vide
E insieme riconobbe quell'arpa
"Menestrello", disse, "se desideri prosperare,
Dove prendesti quell'arpa, e come?
Ti prego, dimmelo!"
"Signore", rispose, "in terre ignote
Allorquando andavo per lande selvagge,
Colà trovai in una forra
Un uomo fatto a pezzi dai leoni,
Divorato dalle aguzze zanne dei lupi.
Accanto a lui trovai quest'arpa,
Sono ormai dieci anni."
"Oh!" disse il sovrintendente, "povero me!
Egli era il mio Signore, Ser Orfeo!
Ahimè, che disgrazia, che mai farò
Ora che ho perso il mio Signore?
Ah! Che io non fossi mai nato!
Ché a lui fu destinato così amara sorte
Ed il fato di una morte così orrenda!"
Quindi cadde a terra in deliquio
E i baroni subito lo sollevarono
E gli dissero che in questo mondo
"non v'è rimedio alla morte".
Sire Orfeo quindi ben conobbe
La lealtà del sovrintendente
E che lo amava come si conviene,
E così s'alzò, e disse: "Ecco,
Sovrintendente, guarda!
Se io fossi sire Orfeo
E avessi lungamente sofferto
Disperandomi nelle terre selvagge,
E avessi riconquistato la mia regina,
Portandola via dalla terra delle fate,
E avessi portato la mia dolce dama
Fin qui ai margini della città
E l'avessi lasciata assieme ad un mendicante,
E fossi giunto qui
A te, in miseria, ora immoto,
Per saggiare la tua buona volontà
E l'avessi trovata onesta
Non dovresti dispiacerti:
Certamente, per amore o fedeltà,
Tu saresti re dopo di me
E se tu ti fossi rallegrato della mia morte
Saresti stato bandito, immediatamente."
Quindi tutti coloro che colà sedevano
Riconobbero che era sire Orfeo
E lo riconobbe anche il sovrintendente
E si gettò oltre la tavola
E cadde ai suoi piedi.
Così fece ogni signore
E tutti dissero a gran voce
"Sii il nostro signore, sire e re!"
Lieti furono che fosse in vita,
Subito lo portarono nella sua camera
E lo nettarono e rasarono
E lo vestirono come conviene al re.
Poi in gran processione
Portarono la regina nella città
Con ogni guisa di canti.
- Signore! Che musica meravigliosa fu!-
Di gioia piansero i loro occhi
Ché li videro sani e salvi,
Ora sire Orfeo è di nuovo incoronato
E così la sua regina, dama Euridice,
E vissero poi a lungo
E dopo di loro fu re il sovrintendente.
I musici in Britannia poi
Udirono di queste meraviglie
E ne fecero un lai di gran bellezza
E lo chiamarono dal nome del re.
Il lai “di Orfeo” si chiama.
Bello è il lai, dolce la musica.
Così sire Orfeo uscì dal suo dolore.
Dio ci garantisca sempre prosperità!